venerdì 28 marzo 2014

Sgranocchiando popcorn: "Saving Mr. Banks"

La donna dietro Mary Poppins

Cari lettori, quest'oggi ci armiamo di nuovo di popcorn, ma forse uno snack salato non è la migliore delle idee, perché tutto quel che seguirà andrà preso con “un poco di zucchero”.
Capita la citazione? Ebbene sì, il film che metteremo, è proprio il caso di dirlo, sotto i riflettori è la pellicola del 2013 Saving Mr. Banks, per la regia di John Lee Hancock, che con la scusa di mostrarci le mille (e poco note) peripezie nascoste dietro la produzione della celeberrima versione Disney di Mary Poppins, quella con Julie Andrews nel ruolo della protagonista e le canzonette orecchiabili che tutti certamente abbiamo in testa, traccia a spizzichi e bocconi una toccante biografia dell'autrice dei libri originali, Pamela Lyndon Travers, all'anagrafe Helen Goff (portata sullo schermo da Emma Thompson da adulta e Annie Rose Buckley nelle scene che la mostrano bambina). 

E già la questione del nome ne solleva molte altre: la nostra eroina si configura da subito come una personcina precisa fino alla patologia e testarda fin quasi al ridicolo, piena di piccole e inspiegabili idiosincrasie. È, e deve essere, “la signora Travers” per tutti: non si lascia chiamare per nome nemmeno dall'agente che conosce da sempre, figurarsi da un insistente Walt Disney (Tom Hanks) che da vent'anni la contatta senza sosta per convincerla a firmare il contratto di cessione dei diritti del suo amatissimo libro per l'infanzia. È estremamente riluttante a lasciare una Londra a cui è evidentemente molto legata, ma che non è neppure la sua terra d'origine, dato che di nascita è australiana, per andare a discutere del copione in California, e quando finalmente si convince a partire, le sue richieste la fanno diventare l'incubo di tutti, dalla hostess all'autista, dalla segretaria ai fratelli Sherman, compositori delle famose canzoni. L'impatto con l'America è uno shock per tutte le persone coinvolte, spettatori inclusi: se loro trovano lei insopportabile, lei è disgustata dalla loro espansività e confidenza che interpreta come maleducazione, e noi che guardiamo siamo colpiti dall'improvviso cambio di marcia della colonna sonora come da uno schiaffo in pieno viso, in quanto il brano che parte nel preciso istante dell'atterraggio a Los Angeles, rispetto ai toni tranquilli della musica londinese, è di un'allegria sfacciata.
Una nota passeggera: c'è chi, nel modo di Disney di toccare la Travers a ogni occasione (non fatevi strane idee, parlo di strette di mano più vigorose del necessario e pacche sulle spalle non richieste, non di più) e di continuare imperterrito a chiamarla Pam nonostante tutto, ha visto un flirt. Io non sono d'accordo: non è altro che un trucco per contrapporre lo stereotipo dell'americano amicone a quello dell'inglese formale fino all'estremo, in modo non dissimile da quello di A Royal Weekend, sequel ideale de Il discorso del re, in cui Roosevelt trattava Giorgio VI quasi come un compagno di merende. In quello, che io sappia, nessuno ha visto un flirt omosessuale, o sbaglio?
Tra le pretese della nostra autrice, in nessun ordine particolare: niente pere nel cestino di frutta di benvenuto in albergo (finiranno defenestrate tra la perplessità generale dei clienti che le vedono cadere in piscina), un totale stravolgimento degli schizzi iniziali di casa Banks, che deve avere esattamente l'aspetto della sua, un look pulito e sbarbato per il padre dei bambini che invece Disney aveva voluto coi baffi, solo attori reali senza alcuna sequenza animata, completa eliminazione del colore rosso dal film (immaginatevi le obiezioni: come si fa a togliere il rosso da una storia ambientata in un Paese dalla bandiera bianca, rossa e blu?) e soprattutto, con sommo sconforto dei due fratelli musicisti, niente canzoni. Peraltro, pollice in giù per il trucco e parrucco della Thompson in questo frangente: se i costumi e tutto il resto dell'apparato estetico erano stati finora ineccepibili, avrebbero potuto almeno evitare la contraddizione del farle dire cose come «Mi trovo improvvisamente “anti-rosso”» e «Non lo indosserò mai più» per poi metterle sulle labbra rossetti più scarlatti di un semaforo e un evidentissimo strato di smalto rosso ai piedi. Oh, be', perlomeno lo scivolone è compensato dal puro valore comico dell'imbarazzo provato da uno dei due Sherman, che nel giorno della sua requisitoria contro il colore ha sfortunatamente messo un gilet che più rosso non si può.
Un personaggino strano, nevvero? E in particolare – viene da chiedersi durante la visione – come diamine è possibile che il film sia stato prodotto così come lo conosciamo se lei continua a depennare in tronco idee che lo spettatore medio sa che invece furono poi incluse?
Nella parte iniziale la Thompson è davvero brava a indossare i panni della zitella acida: dapprima ti colpisce con un'inquadratura che è un vero pugno allo stomaco, la primissima, in cui il suo sguardo fisso sembra letteralmente bucare lo schermo per raggiungere l'osservatore (non oso pensare all'effetto che mi avrebbe fatto in 3D), e poi si trasforma in un'autentica macchinetta che non sa far altro che dire no, no e no. No, non chiamiamoci tutti per nome come si fa normalmente negli studi Disney, io sono la signora Travers! No, la scena dei pinguini danzanti non s'ha da fare! No, niente parole inventate nelle canzoni, se proprio si deve cantare! Esatto, questo significa bocciatura senza appello anche per Supercalifragilistichespiralidoso. Brutto colpo, eh?
Eppure tutte queste cose nel film ci sono. Le infinite controversie in sala prove lasciano un senso di profonda confusione: per quanto ci s'impegni a cercare di intuire la continuazione, sembra proprio impossibile che una così rigida faccia un tale cambiamento e trasformi tutti i suoi no in sì.
Tuttavia, man mano che lo sfiancante lavoro con la squadra Disney fa riaffiorare i suoi ricordi, si comincia a provare più empatia per questa donna monolitica dalla penna rossa troppo facile, perché diventa via via più chiaro che ogni sua stranezza trova una ragion d'essere nella sua non facile infanzia: si vede scivolare di mano un padre (Travers Goff, l'origine del suo pseudonimo, interpretato da Colin Farrell) dolce, divertente e pieno d'amore con cui la vita al di fuori delle mura domestiche non è stata affatto gentile, che diventa sempre più preda dell'alcol fino a morirne lasciando la conduzione familiare in mano a una moglie troppo debole per occuparsene. Nell'impossibilità di cavarsela da sola, la madre di Helen chiede aiuto alla sorella Ellie, che quando si presenta sull'uscio di casa è identica alla tata: stesso ombrello, stesso abito, stessa borsa impossibile da cui estrae qualunque cosa, dalle medicine ai fiori freschi in vaso, da una tazza da tè con piattino senza la benché minima crepa a un ananas intero il cui ciuffo di foglie non si è neppure piegato un po', e tutto questo presumibilmente dopo un lungo viaggio tra treni e carrozze dall'ammortizzazione non proprio eccelsa.
Non è chiaro quanto di tutto questo sia reale e quanto sia una distorsione portata dal tempo che passa: allo stesso modo, qualche scena prima, una delle canzoni degli Sherman si era fusa nella sua mente con un disastroso discorso tenuto dal padre a una fiera locale.
Non solo ogni sua mania personale è legata a un preciso trauma di quel difficile periodo, ma anche ogni personaggio del suo capolavoro, dunque, ha uno o più omologhi reali. L'impressione che se ne ricava è che Mary Poppins, che nell'opera originale è molto più severa di Julie Andrews, altro non sia che una fusione tra la zia e il lato migliore del padre, mentre il freddo e distante Mr. Banks sia l'incarnazione del peggiore: in questo senso il film s'intitola Saving Mr. Banks. L'incomprensione di fondo tra Disney e la Travers sta nell'interpretazione della storia: lui, che voleva farne una commedia brillante, è inizialmente convinto che lo scopo unico della tata sia di salvare i bambini, mentre lei, che aveva cominciato a scriverla da adolescente per alleviare il dolore dei suoi fratelli per poi pubblicarla a distanza di anni, sa che quello che ha bisogno di essere salvato è il padre, che avrebbe voluto veder tornare com'era prima di divenire schiavo del bere.
Ci vorrà un fior di inseguimento, con lei che prende il volo di ritorno senza firmare la cessione e lui che prenota in extremis un posto sul successivo, e una toccante scena a cuore aperto in cui Disney, che non sa i dettagli ma ha intuito abbastanza, le confessa le brutture della sua fanciullezza altrettanto dolorosa, per convincerla a siglare il sospirato contratto, ma alla fine la cittadella chiamata Pamela Lyndon Travers crollerà sotto l'assedio dell'esercito nemico e, in una conclusione che più disneyana di così si muore, abbigliata in un bianco e azzurro che chissà perché fa tanto Cenerentola, la nostra eroina andrà alla prima di Los Angeles come fosse un gran ballo, scortata in sala da un servizievole figurante col costume da Topolino.
Fin troppo disneyana, forse: avrei apprezzato di più se nel corso del film si fosse nominata anche qualche idea che poi fosse stata effettivamente tolta dal prodotto finale, invece di concentrarsi tanto solo su quelle accettate. Capisco l'affetto: fa sorridere il pensiero che concetti, personaggi e motivi a cui tutti siamo abituati abbiano rischiato grosso prima di essere approvati. Così facendo, però, si fa apparire il cedimento della Travers come una resa totale invece di un più dignitoso compromesso, facendone vacillare l'immagine accuratamente costruita di donna forte in favore di una soluzione “salvatutti” da cartone animato, appunto, in cui il cattivo ha una conversione quasi magica, troppo integrale per essere credibile, e si unisce cantando e saltellando alla schiera dei buoni. Uno strano trattamento, dato che l'unico vero cattivo della situazione si trovava semmai sul fondo di una bottiglia di whisky.
Valutazione complessiva: 

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