La donna dietro Mary Poppins
Cari lettori, quest'oggi ci
armiamo di nuovo di popcorn, ma forse uno snack salato non è la
migliore delle idee, perché tutto quel che seguirà andrà preso con
“un poco di zucchero”.
Capita
la citazione? Ebbene sì, il film che metteremo, è proprio il caso
di dirlo, sotto i riflettori è la pellicola del 2013 Saving
Mr. Banks,
per la regia di John Lee Hancock, che con la scusa di mostrarci le
mille (e poco note) peripezie nascoste dietro la produzione della
celeberrima versione Disney di Mary
Poppins,
quella con Julie Andrews nel ruolo della protagonista e le canzonette
orecchiabili che tutti certamente abbiamo in testa, traccia a
spizzichi e bocconi una toccante biografia dell'autrice dei libri
originali, Pamela Lyndon Travers, all'anagrafe Helen Goff (portata
sullo schermo da Emma Thompson da adulta e Annie Rose Buckley nelle
scene che la mostrano bambina).
E già la questione del nome ne
solleva molte altre: la nostra eroina si configura da subito come una
personcina precisa fino alla patologia e testarda fin quasi al
ridicolo, piena di piccole e inspiegabili idiosincrasie. È, e deve
essere, “la signora Travers” per tutti: non si lascia chiamare
per nome nemmeno dall'agente che conosce da sempre, figurarsi da un
insistente Walt Disney (Tom Hanks) che da vent'anni la contatta senza
sosta per convincerla a firmare il contratto di cessione dei diritti
del suo amatissimo libro per l'infanzia. È estremamente riluttante a
lasciare una Londra a cui è evidentemente molto legata, ma che non è
neppure la sua terra d'origine, dato che di nascita è australiana,
per andare a discutere del copione in California, e quando finalmente
si convince a partire, le sue richieste la fanno diventare l'incubo
di tutti, dalla hostess all'autista, dalla segretaria ai fratelli
Sherman, compositori delle famose canzoni. L'impatto con l'America è
uno shock per tutte le persone coinvolte, spettatori inclusi: se loro
trovano lei insopportabile, lei è disgustata dalla loro espansività
e confidenza che interpreta come maleducazione, e noi che guardiamo
siamo colpiti dall'improvviso cambio di marcia della colonna sonora
come da uno schiaffo in pieno viso, in quanto il brano che parte nel
preciso istante dell'atterraggio a Los Angeles, rispetto ai toni
tranquilli della musica londinese, è di un'allegria sfacciata.
Una
nota passeggera: c'è chi, nel modo di Disney di toccare la Travers a
ogni occasione (non fatevi strane idee, parlo di strette di mano più
vigorose del necessario e pacche sulle spalle non richieste, non di
più) e di continuare imperterrito a chiamarla Pam nonostante tutto,
ha visto un flirt. Io non sono d'accordo: non è altro che un trucco
per contrapporre lo stereotipo dell'americano amicone a quello
dell'inglese formale fino all'estremo, in modo non dissimile da
quello di A
Royal Weekend,
sequel ideale de Il
discorso del re,
in cui Roosevelt trattava Giorgio VI quasi come un compagno di
merende. In quello, che io sappia, nessuno ha visto un flirt
omosessuale, o sbaglio?
Tra le pretese della nostra
autrice, in nessun ordine particolare: niente pere nel cestino di
frutta di benvenuto in albergo (finiranno defenestrate tra la
perplessità generale dei clienti che le vedono cadere in piscina),
un totale stravolgimento degli schizzi iniziali di casa Banks, che
deve avere esattamente l'aspetto della sua, un look pulito e sbarbato
per il padre dei bambini che invece Disney aveva voluto coi baffi,
solo attori reali senza alcuna sequenza animata, completa
eliminazione del colore rosso dal film (immaginatevi le obiezioni:
come si fa a togliere il rosso da una storia ambientata in un Paese
dalla bandiera bianca, rossa e blu?) e soprattutto, con sommo
sconforto dei due fratelli musicisti, niente canzoni. Peraltro,
pollice in giù per il trucco e parrucco della Thompson in questo
frangente: se i costumi e tutto il resto dell'apparato estetico erano
stati finora ineccepibili, avrebbero potuto almeno evitare la
contraddizione del farle dire cose come «Mi trovo improvvisamente
“anti-rosso”» e «Non lo indosserò mai più» per poi metterle
sulle labbra rossetti più scarlatti di un semaforo e un
evidentissimo strato di smalto rosso ai piedi. Oh, be', perlomeno lo
scivolone è compensato dal puro valore comico dell'imbarazzo provato
da uno dei due Sherman, che nel giorno della sua requisitoria contro
il colore ha sfortunatamente messo un gilet che più rosso non si
può.
Un personaggino strano, nevvero?
E in particolare – viene da chiedersi durante la visione – come
diamine è possibile che il film sia stato prodotto così come lo
conosciamo se lei continua a depennare in tronco idee che lo
spettatore medio sa che invece furono poi incluse?
Nella
parte iniziale la Thompson è davvero brava a indossare i panni della
zitella acida: dapprima ti colpisce con un'inquadratura che è un
vero pugno allo stomaco, la primissima, in cui il suo sguardo fisso
sembra letteralmente bucare lo schermo per raggiungere l'osservatore
(non oso pensare all'effetto che mi avrebbe fatto in 3D), e poi si
trasforma in un'autentica macchinetta che non sa far altro che dire
no, no e no. No, non chiamiamoci tutti per nome come si fa
normalmente negli studi Disney, io sono la signora Travers! No, la
scena dei pinguini danzanti non s'ha da fare! No, niente parole
inventate nelle canzoni, se proprio si deve cantare! Esatto, questo
significa bocciatura senza appello anche per
Supercalifragilistichespiralidoso.
Brutto colpo, eh?
Eppure
tutte queste cose nel film ci
sono.
Le infinite controversie in sala prove lasciano un senso di profonda
confusione: per quanto ci s'impegni a cercare di intuire la
continuazione, sembra proprio impossibile che una così rigida faccia
un tale cambiamento e trasformi tutti i suoi no in sì.
Tuttavia, man mano che lo
sfiancante lavoro con la squadra Disney fa riaffiorare i suoi
ricordi, si comincia a provare più empatia per questa donna
monolitica dalla penna rossa troppo facile, perché diventa via via
più chiaro che ogni sua stranezza trova una ragion d'essere nella
sua non facile infanzia: si vede scivolare di mano un padre (Travers
Goff, l'origine del suo pseudonimo, interpretato da Colin Farrell)
dolce, divertente e pieno d'amore con cui la vita al di fuori delle
mura domestiche non è stata affatto gentile, che diventa sempre più
preda dell'alcol fino a morirne lasciando la conduzione familiare in
mano a una moglie troppo debole per occuparsene. Nell'impossibilità
di cavarsela da sola, la madre di Helen chiede aiuto alla sorella
Ellie, che quando si presenta sull'uscio di casa è identica alla
tata: stesso ombrello, stesso abito, stessa borsa impossibile da cui
estrae qualunque cosa, dalle medicine ai fiori freschi in vaso, da
una tazza da tè con piattino senza la benché minima crepa a un
ananas intero il cui ciuffo di foglie non si è neppure piegato un
po', e tutto questo presumibilmente dopo un lungo viaggio tra treni e
carrozze dall'ammortizzazione non proprio eccelsa.
Non è chiaro quanto di tutto
questo sia reale e quanto sia una distorsione portata dal tempo che
passa: allo stesso modo, qualche scena prima, una delle canzoni degli
Sherman si era fusa nella sua mente con un disastroso discorso tenuto
dal padre a una fiera locale.
Non
solo ogni sua mania personale è legata a un preciso trauma di quel
difficile periodo, ma anche ogni personaggio del suo capolavoro,
dunque, ha uno o più omologhi reali. L'impressione che se ne ricava
è che Mary Poppins, che nell'opera originale è molto più severa di
Julie Andrews, altro non sia che una fusione tra la zia e il lato
migliore del padre, mentre il freddo e distante Mr. Banks sia
l'incarnazione del peggiore: in questo senso il film s'intitola
Saving
Mr. Banks.
L'incomprensione di fondo tra Disney e la Travers sta
nell'interpretazione della storia: lui, che voleva farne una commedia
brillante, è inizialmente convinto che lo scopo unico della tata sia
di salvare i bambini, mentre lei, che aveva cominciato a scriverla da
adolescente per alleviare il dolore dei suoi fratelli per poi
pubblicarla a distanza di anni, sa che quello che ha bisogno di
essere salvato è il padre, che avrebbe voluto veder tornare com'era
prima di divenire schiavo del bere.
Ci vorrà un fior di
inseguimento, con lei che prende il volo di ritorno senza firmare la
cessione e lui che prenota in extremis un posto sul successivo, e una
toccante scena a cuore aperto in cui Disney, che non sa i dettagli ma
ha intuito abbastanza, le confessa le brutture della sua fanciullezza
altrettanto dolorosa, per convincerla a siglare il sospirato
contratto, ma alla fine la cittadella chiamata Pamela Lyndon Travers
crollerà sotto l'assedio dell'esercito nemico e, in una conclusione
che più disneyana di così si muore, abbigliata in un bianco e
azzurro che chissà perché fa tanto Cenerentola, la nostra eroina
andrà alla prima di Los Angeles come fosse un gran ballo, scortata
in sala da un servizievole figurante col costume da Topolino.
Fin troppo disneyana, forse:
avrei apprezzato di più se nel corso del film si fosse nominata
anche qualche idea che poi fosse stata effettivamente tolta dal
prodotto finale, invece di concentrarsi tanto solo su quelle
accettate. Capisco l'affetto: fa sorridere il pensiero che concetti,
personaggi e motivi a cui tutti siamo abituati abbiano rischiato
grosso prima di essere approvati. Così facendo, però, si fa
apparire il cedimento della Travers come una resa totale invece di un
più dignitoso compromesso, facendone vacillare l'immagine
accuratamente costruita di donna forte in favore di una soluzione
“salvatutti” da cartone animato, appunto, in cui il cattivo ha
una conversione quasi magica, troppo integrale per essere credibile,
e si unisce cantando e saltellando alla schiera dei buoni. Uno strano
trattamento, dato che l'unico vero cattivo della situazione si
trovava semmai sul fondo di una bottiglia di whisky.
Valutazione complessiva:
Nessun commento:
Posta un commento