giovedì 25 febbraio 2016

Lo strano caso dei fiori "petalosi"

La lingua è viva, anzi vivissima!


Salve, gente!

Avete sentito l’ultima? Potrebbe esserci una nuova parola in arrivo di cui il nostro panda avrà sicuramente voglia di occuparsi.

Se avete seguito un po’ il tam-tam che si è creato sui social network, non avrete di certo bisogno di questo breve riassunto della faccenda: un bambino di otto anni, nello svolgere un esercizio sugli aggettivi, ne ha prodotto uno che sul dizionario non esiste, ma che – ohibò! – ha senso, e la maestra non solo ha scritto all’Accademia della Crusca, ma ha pure ottenuto una celere risposta.

E che risposta! Non solo per il tono, che per fortuna è calibrato sul livello del piccolino e non su quello di un linguista laureato con tutti gli onori, ma proprio per il contenuto. Scommetto che se dico “Accademia della Crusca” molti di voi penseranno a una manica di bacchettoni antiquati con la matita rossa e blu da maestrini in resta, e invece a quanto pare non è così. Ci sono, come vedremo, legioni di commentatori che pensano che l’istituzione sia caduta in basso con questa recente mossa, ma rimane il fatto che chi ha scritto a Matteo non dice nemmeno una volta che questa benedetta parola “petaloso” sia inaccettabile. E se ci pensiamo bene, il ragionamento non fa una grinza: di sicuro verranno in mente anche a voi infiniti altri esempi, oltre a quelli in foto, di parole costruite esattamente in questo modo.

E proprio qui, forse forse, sta l’inghippo. Intendiamoci: tanto di cappello alla maestra che ha deciso di non umiliare l’alunno per il suo errore e premiarne invece la creatività di fronte alla consegna, o le capacità di problem solving, se vogliamo farci belli (o brutti?) con uno di quei termini inglesi che fanno tanto moderno e ai signori accademici fanno venire la pelle d’oca. Sì, l’ho usato apposta. No, di solito non parlo né scrivo così. Ma l’impresa di Matteo, se vogliamo essere brutalmente sinceri, non è straordinaria come il popolo dei social vuole farla sembrare. Inventare parole che non esistono a partire da meccanismi molto produttivi, come un nuovo aggettivo in “-oso” oggi o un nuovo verbo in “-are” domani, è una cosa che credo abbiamo fatto non dico tutti, ma tanti. Creare un termine dal nulla laddove la parola o frase giusta non viene in mente, per scarsa padronanza del lessico o non so quale altro motivo, o regolarizzare parole ostiche dal comportamento imprevedibile per chi non abbia ancora fatto molti studi formali di grammatica, sono fatti naturalissimi che fanno parte dell’apprendimento di qualunque lingua, italiano compreso. Chissà quante simili stranezze avrò detto io stessa da piccola! Se me le ricordassi, sarei ben felice di farne una lista: chissà che alla Crusca non ne possa piacere qualcuna. E quante, confesso, ne dico ancora! Queste, però, non voglio elencarle, perché non vi servirebbero a niente, a meno che non vi troviate a dover descrivere un certo gattone un po’ scontroso con una macchia sul nasino. A proposito, posso dire che Leo è “macchioso”? Posso? È una parola tanto carina…

Diamo ora un’occhiata ai due estremi opposti che si sono generati, com’era ovvio, nella fiumana di reazioni su Facebook:


(Lasciamo perdere i miei pietosi tentativi di censurare l’ancora visibilissimo turpiloquio e andiamo avanti, OK? Grazie, troppo buoni.)

E dunque: “petaloso” sì o “petaloso” no? Francamente, è presto per dirlo, e anche la campagna su Internet per aiutare il piccolo Matteo a diffondere la sua parola non so se basterà per farla inserire nella prossima edizione di qualche vocabolario autorevole. Ci avete provato, gente, e probabilmente una gran bella spinta verso l’approvazione l’avete anche data, ma non penso che sia ancora sufficiente. O forse sì, chi può dirlo? Non è compito mio né di tanti studiosi più validi di me avere la sfera di cristallo.

Io questa parola non riesco a farmela piacere tanto, ma da studentessa che con queste cose ha a che fare ogni giorno mi rendo conto che si tratta, né più né meno, di un effetto simile a quello che può fare la musica della nostra generazione ai nonni: “Non è musica, è rumore!”. Se fossi abituata a sentirla, mi apparirebbe perfetta.

C’è anche chi dice che “non se ne sentiva il bisogno”, che è un modo brutto per dire ciò che fino a ieri si poteva esprimere con qualche paroletta in più, ma più elegantemente, per esempio “con tanti petali”, “ricco di petali”. E qui casca l’asino (no, non sto dando dell’asino a nessuno in particolare): tu che commenti puoi non sentirne il bisogno, ma ne aveva bisogno Matteo in quel momento.


Ecco infatti l’esercizio originale che ha provocato tutto questo. La maestra chiedeva due aggettivi per ogni nome: singole parole che rientrano in quella categoria grammaticale, non locuzioni formate da più di una. Matteo, poveretto, avrà avuto voglia di esprimere il concetto “con tanti petali” per descrivere il fiore che immaginava, ma si sarà reso conto, presumo, che scrivere “con tanti petali” avrebbe violato la regola data dalla consegna, e così si è arrangiato. Sì, se ne sentiva il bisogno. O almeno, una persona l’ha sentito, e la necessità aguzza l’ingegno, per dire la banalità del giorno.

È una parola valida, non si discute. Qualunque manuale lo confermerebbe. Se poi abbia anche il giusto potenziale per diventare parte integrante della nostra lingua, non saprei dire. Ma era proprio necessario coinvolgere l’Accademia e farne un caso nazionale? Sinceramente, trovo il comportamento di questa maestra un po’ estremo. Encomiabile, ma estremo. È una cosa meravigliosa che abbia deciso di non mettere Matteo in imbarazzo per il modo poco ortodosso in cui se l’è cavata, proteggendo la sua delicatissima autostima di bambino, ma quel che ha ottenuto è stato soltanto di metterlo sotto i riflettori, facendolo finire su Internet e in TV, e questo, per la soluzione di fatto ancora errata, per quanto simpatica, tenera e divertente, di un esercizio d’italiano, è davvero troppo.

Con questo non intendo dire che non sappia fare l’insegnante e che dovrebbero toglierle la cattedra: se notate, l’ha segnato comunque come errore, quindi non era sua intenzione premiare una risposta sbagliata. In effetti, se guardo il suo metodo, sento nascere in me qualcosa che non saprei definire altrimenti che invidia. C’è una certa poesia nell’espressione che ha usato, “errore bello”. Magari avessi avuto io delle maestre “poetesse” così! Se ripenso alla mia esperienza delle elementari, mi viene in mente solo un clima in cui una cosa come “errore bello” non era soltanto un ossimoro, ma proprio un adynaton, parolone greco che vuol dire “impossibile”, una cosa che non sta né in cielo né in terra. Gli errori belli nella mia classe non esistevano, una parola inventata sarebbe stata un errore e basta, e non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di scrivere “errore brutto”, perché erano brutti tutti, sempre. Altro che Crusca! Magari sono ricordi distorti dal tempo, ma io credo sinceramente che nessuna delle mie insegnanti avrebbe fatto una cosa simile.

Né, ripeto, penso che scrivere all’Accademia sia stata la soluzione corretta: se è un’insegnante d’italiano, voglio sperare che abbia le competenze per spiegare lei stessa, vocabolario alla mano, esattamente gli stessi concetti, in fondo semplici, espressi nella lettera della Crusca. Comprendo benissimo che il tempo per finire i programmi ministeriali sia sempre poco, ma sarebbe stato forse meglio fermarsi un momento e prendersi quanto necessario (dieci minuti? Mezz’ora?) per dire: “Cari bambini, il vostro compagno Matteo ha scritto un aggettivo che sul dizionario non c’è, ma sapevate che un giorno, forse, potrebbe esserci? Che ne dite di scoprire insieme come nasce una parola nuova?”. E via con un’appassionante, imprevista lezioncina alternativa sui neologismi, che magari avrebbe sottratto un po’ di prezioso spazio allo studio degli aggettivi, ma che la classe non avrebbe mai dimenticato. Niente Crusca, niente hashtag, niente telecamere, ma solo un bellissimo ricordo.


E allora? Abbastanza petalose per i vostri gusti?