giovedì 24 aprile 2014

Un diamante è per sempre...

... un amico a quattro zampe anche!

Un saluto a tutti i miei lettori. Oggi ci fermiamo un attimo e diamo spazio a un post un po' diverso dal solito.
Immaginate questo scenario: il vostro migliore amico va in vacanza in un posto meraviglioso. Per un po' sperate che riesca a estendere anche a voi l'invito, ma poi arriva la cattiva notizia: non si può, deve proprio andarci da solo. Pazienza, direte voi: non se lo potrà permettere, oppure la prenotazione ormai è fatta e non si scappa più. Sarete felici per lui, suppongo. Salutatelo e attendete con pazienza che ritorni dalla sua settimana a tutto relax.
A ben pensarci, è strano che non si sia mai fatto vivo, ma voi rispettate la sua privacy e non ve ne lamentate: se ha deciso di tenere il cellulare spento per riposarsi ancora di più, buon per lui, no?
Appena rimette piede in città gli mandate un messaggio: “Com'è andata? Raccontami tutto!”. Be', magari con qualche vocale in meno in mezzo alle parole, ma ci siamo capiti. Aspettate risposta, ma passa un'ora e quella non arriva. Poco male, non avrà sentito arrivare il vostro SMS, appena controllerà vi farà un bel riassunto di quelli da far salire l'invidia alle stelle, ne siete sicurissimi. Passano due ore, poi tre, e ancora niente. Arriva l'indomani e continua a ignorarvi. Pensate bene di provare a contattarlo su Facebook, nella speranza che magari segua le notifiche del social network con un po' più di assiduità, e scoprite con sconcerto che vi ha rimosso dagli amici.
Qui le cose cominciano a mettersi male. Gli avete forse fatto un torto prima che partisse? Eppure non ve ne ricordate proprio! Possibile che si sia dimenticato di voi durante la vacanza? Ma cosa diavolo si mangiava al suo villaggio turistico, i fiori di loto dell'Odissea?
Ma questa è una storia assurda, direte voi. Nessuna vacanza, per quanto formidabile, può cancellare il ricordo di un amico dalla mente di qualcuno. Ne siete proprio sicuri? Questa affermazione forse è vera se l'amico in questione cammina su due gambe, ma se invece di zampe ne ha quattro?
Cominciate a capire dove voglio arrivare, vero? Forse sono un po' fuori stagione, dato che gli appelli come questo di solito proliferano d'estate e siamo appena ad aprile, ma credo che, a parte cellulari e Facebook, un animale abbandonato provi qualcosa di molto simile. Ci vorrebbero fior di scienziati per esserne sicuri, ma ho il sospetto che un pensiero del genere possa aver attraversato la mente di tanti cani lasciati per la strada in favore di una settimana al mare: sarò stato cattivo? Sarà mica colpa mia se i miei umani non mi vogliono più?
Ora torniamo alla nostra scenetta immaginaria e correggiamo un po' il tiro: fingiamo che voi con questo amico ci viveste. Cosa succederebbe se, tornato dalla sua bella villeggiatura, vi cacciasse di casa e rimaneste senza un posto dove andare? Ecco, forse ora la situazione somiglia ancora di più a quella di un animale, vero? Forse trovereste qualcuno disposto ad aiutarvi, o forse no. Forse otterreste almeno un riparo temporaneo, o forse no. Forse riuscireste a recuperare abbastanza cibo da tirare avanti finché non trovate un altro supporto, o forse no. Questione di abilità, ma non ve la cavate un granché in situazioni estreme, il vostro ex amico vi aveva abituati troppo bene e di certo non gli era mai saltato in testa di iscrivervi a un corso di sopravvivenza. Allora dipende tutto dalla fortuna, ma diciamocelo, non è una situazione molto fortunata, la vostra, o sbaglio?
Lasciare un animale a se stesso dopo averlo tenuto tanto tempo in casa non è troppo diverso. Per quanto possano essere geneticamente simili, un cane non è un lupo e un gatto non è un leone. Passare da un giorno all'altro dall'avere pappa e cuccia garantite al dormire all'addiaccio mangiucchiando quel che c'è, per di più in un ambiente ostile dove potrebbero finire sotto un'auto o uccisi da un boccone avvelenato in qualsiasi momento, è quasi una condanna a morte.
E tutto questo per una vacanza al mare, o perché ve ne siete semplicemente stufati? Avrei voglia di riversare addosso a chi si comporta così tutti i peggiori insulti in tutte le lingue che mastico, ma non lo farò. Preferisco farvi notare un'altra cosa.
Se abbandonate un animale in favore di un periodo di pausa o di uno stile di vita che immaginate più tranquillo, mettete sì il quattrozampe in una situazione difficile, ma chi ci perde siete voi. Non sprecherò neanche tempo a spiegarvi per filo e per segno perché un'azione del genere sia moralmente deplorevole. Penso che mi convenga di più dirvi invece, punto per punto, perché sia irrimediabilmente stupida.
Poniamo il caso che l'animale in questione sia un cane. Sarete pure tornati contenti dalle Hawaii, ma avrete perso un efficace deterrente per ladri e malintenzionati assortiti, una scusa per fare una vita più attiva e un amico fedele che vi amava incondizionatamente, anche se chiaramente non ve lo meritavate. Complimenti. La prossima volta che subirete un furto, che i valori dei vostri esami medici soffriranno per la mancanza delle passeggiate, o anche solo che tornerete dal lavoro trovando una casa vuota che non risuona dell'abbaiare entusiasta di qualcuno che è genuinamente felice di vedervi, saprete a chi dare la colpa.
Poniamo il caso che sia un gatto, e qui, se mi conoscete, saprete che ho in mano qualche dato in più. Che prezzo avrete mai pagato per la vostra villeggiatura, se Micio ha la fama (poco meritata) di non affezionarsi quanto Fido? E qui, cari miei, sta l'assurdo. In vacanza si va per combattere lo stress, giusto? Se abbandonate un gatto per una settimana senza preoccupazioni, al vostro ritorno ne troverete ancora di più ad aspettarvi. Accarezzare un gatto è un antistress che nessuna pallina da schiacciare può battere, e se qualcuno per caso ha qualche problemino di pressione alta, sapevate che pare che le fusa l'abbassino? Altro che pet therapy, avete perso un tale dottore peloso che invece del collare avreste potuto mettergli il camice! E quanto all'affetto, provate a uscire per qualche ora e poi tornare a casa. Guardate negli occhi il vostro gatto mentre si struscia sulle vostre gambe – anzi, non fatelo, ché potrebbe prenderlo come un segnale di sfida – e provate a dire in tutta sincerità che non vi ama. Non penso che ci riuscirete.
Dopo aver compilato tutte le scartoffie e superato tutti i controlli per adottare un bambino, lo riportereste da dov'è venuto dopo qualche mese perché la vita con lui non è come l'immaginavate? No? Allora perché c'è ancora tanta gente che con gli animali lo fa? Certe decisioni, quando si prendono, si devono prendere considerando che influenzeranno tutta la vostra vita futura. Bisogna fare attenzione quando ci si risolve ad adottare un cucciolo d'uomo, quindi perché non uno di cane? Bisogna pensarci bene prima di farsi un tatuaggio permanente che vi costerà dolore e soldi, o prima di scegliere la scuola che determinerà tutto il vostro percorso successivo, quindi perché non dedicare la stessa cura a un gatto?
I cani più longevi toccano in media un'età compresa tra i quindici e i diciotto anni, i gatti tra i tredici e i quindici, per non parlare poi di quei casi di Matusalemme pelosi che raggiungono e superano i venti e magari sono ancora abbastanza arzilli. Non è un'intera vita umana, si spera, ma non è nemmeno poco.
Accogliendo in casa un animale dovreste, in teoria, esservi scelti un compagno che sarà al vostro fianco per un bel pezzo. Se pensate che l'abbandono sia un'opzione praticabile o, peggio, se già calcolate che prima o poi avverrà, ho un consiglio per voi. Prendete il cane in quest'ultima foto. Se non lo strapazzate troppo durerà ancora più di uno vivo, non sporcherà, non farà rumore, non vi costringerà a portarlo fuori e soprattutto potrete prenderlo e lasciarlo quando vi pare e piace.
Spero che mi perdonerete se oggi mi sono messa a fare la predica dal pulpito, ma è un tema che mi tocca molto. Pertanto, lasciatemi chiudere il post con un annuncio: può darsi che presto vedrete cambiare magicamente il layout di questo blog per far spazio all'angolo Annunci a quattro zampe, dove tenterò, nel mio piccolo, di diffondere le storie di qualche animale in difficoltà. Se invece interverranno troppe difficoltà tecniche, l'angolo non ci sarà, ma potreste comunque riscontrare un ulteriore rallentamento nell'attività della Biblioteca. Se così sarà, non preoccupatevi, non ho smesso di scrivere: ho solo cambiato un po' campo, mettendo la mia tastiera e parte del mio tempo al servizio dei quattrozampe sfortunati. Mancandomi gli altri mezzi per aiutare, ho deciso di inaugurare una modesta attività di stesura di annunci per adozioni. Se siete, o conoscete, volontari in qualche canile, e avete bisogno di qualcuno che si diverta con le parole per dar voce a chi non ce l'ha, sapete chi chiamare.

sabato 19 aprile 2014

Le parole di Piermario

Settima puntata

Salve a tutti! Rieccomi sui vostri schermi! E stavolta non sono sola.
Pier: Ciao, amici! Finalmente ci rivediamo!
E dunque, sei pronto per una nuova puntata?
Pier: Prontissimo! Io non mi arrugginisco mai, cosa credi?
Bene! Allora saprai di sicuro cosa succede adesso. Tre... due... uno... apri la busta!
Pier: La parola di oggi è... “terso”!
Oh, ma che bella parola primaverile! Speriamo che a casa dei nostri lettori faccia bel tempo, così potranno usarla subito. Regia, cosa c'è in serbo per noi stavolta?

Pier: Be', insomma, non è proprio come lo immaginavo...
Che pignolo! Se fosse stata un'unica superficie azzurra uniforme, non si sarebbe nemmeno capito che era il cielo! Accontentati!
Pier: E va bene...
Vediamo un po' la definizione dell'immortale Zingarelli 2008, che tiriamo giù di nuovo dallo scaffale dopo tanta inattività:

terso part. pass. di tergere; anche agg. 1. Detto di superficie del tutto pulita, priva di macchie.
2. Limpido, senza impurità.
3. (fig.) Detto di scritto o stile che rivela proprietà di linguaggio ed eleganza formale.

Pier: Allora è proprio la parola giusta per riprendere la rubrica col botto!
Eh, già! Dopotutto anche noi, nel nostro piccolo, stiamo aiutando chi ci legge a raggiungere il significato numero tre, o almeno, lo spero...
Pier: Ti proporrei di incrociare le dita, ma con queste zampe non ci riesco...
Non ti preoccupare, è il pensiero che conta!
Pier: Allora facciamo finta che l'abbia fatto... C'è altro, o possiamo passare all'angolo di Sherlock?
Ma guarda, “l'angolo di Sherlock”, che nome carino! Ti piace proprio, eh? Non temere, arriverà presto, solo un'altra considerazione veloce e poi è il tuo momento.
Non trovate anche voi che, per l'ennesima volta, il senso numero due prevalga sul numero uno nell'opinione corrente? Io, per me, se proprio devo usare questa parola di solito lo faccio in riferimento a un cielo sgombro, e difficilmente mi verrà in mente di pronunciarla mettendo piede in un salotto buono in cui ogni cosa superi a pieni voti il test del guanto bianco. Eppure è proprio così: ci accorgiamo a malapena che sia un participio passato, forse perché il verbo da cui deriva si usa poco da solo e tanto all'interno di parole composte (in che stato sono i tergicristalli della vostra auto?), ma il primo significato a cui dovremmo pensare è di pulizia, più che di tempo soleggiato.
E ora, il momento che tutti (soprattutto Pier, a quanto pare) aspettavate: è ora di mettersi cappello e impermeabile e seguire le impronte lasciate dalla parola di oggi fino a risalire alla sua origine! Diamo un'occhiata agli indizi... Accidenti!
Pier: Cosa? Che succede?
Succede che la nostra solita fonte per stavolta ci tradisce e non dice altro che quel che sappiamo già, cioè da che verbo deriva, e anche andando a controllare la voce “tergere” non si ottiene un granché. Riapriamo lo Zingarelli e vediamo se ci aiuta un po' di più.

tergere lat. tĕrgere, di etim. incerta.

Pier: Bell'aiuto! Abbiamo imparato che c'entra di nuovo il latino, cosa che a questo punto sto imparando ad aspettarmi, e poi?
E poi, caro il mio panda, hai ragione a essere deluso, ma non c'è molto altro. Se vuoi possiamo avventurarci nelle paludi di un dizionario etimologico di mia conoscenza, ma sappi che potremmo restarci impantanati e che il linguaggio in cui è scritto potrebbe mettere tanta paura ai nostri lettori da far passare loro la voglia di seguirci...
Pier: Io dico di provarci lo stesso. Non mi spavento di certo, io.
Ma come siamo coraggiosi! Ti fai bello per la tua ragazza?
Pier: Ehm... forse...
Va bene, facciamo come panda comanda (con tanto di rima) e sentiamo che dice l'esperto:

tergere rum. sterge; prov. esterzer; a. fr. terdre; a. sp. terger: = lat. tergere |p. p. tersus|, che i più congiungono a una rad. europ. strag- stendere, drusciare, carezzare.*

Pier: Accipicchia, mi sto pentendo...
Per chi si è perso in questa selva oscura di abbreviazioni, la prima parte altro non è che una bella lista di confronti con altre lingue. In questo caso, il nostro erudito amico che ha compilato il dizionario è riuscito a tirar fuori, nell'ordine: rumeno, provenzale, antico francese e antico spagnolo, e se l'avessimo lasciato andare avanti avrebbe estratto dal cappello anche l'antico alto tedesco e il greco, giusto per non lasciare intentata alcuna ipotesi: chi pensa che derivi da una parola che vuol dire “fregare, strofinare”, chi “rendere arido, disseccare”... insomma, rispetto allo Zingarelli ha fatto molto più che dire semplicemente che l'etimologia è incerta e fermarsi lì, ma non è giunto comunque a una soluzione che metta d'accordo tutti. Mi sa che questo “delitto” resterà senza “colpevole”!
Pier: Ora ci vorrebbe una puntata nella puntata solo per quel “drusciare”, ma il resto mi è chiaro. Peccato per la non-soluzione, però!
Rassegnati, ogni tanto qualche vicolo cieco s'incontra per forza. È passato tanto di quel tempo che non sempre si può essere sicuri di quel che si afferma. A proposito, la parola misteriosa vuol dire “sfregare” ma anche “lusingare, adulare”. Non la faccio lunga perché non stava scritto nel contratto!
Pier: Okay, adesso ho capito tutto. Scommetto che anche parecchi lettori saranno stati contenti di questa parentesi!
Non ne dubito. E adesso invece chiudiamo con qualcosa che nel contratto c'è eccome e vediamo come ha usato il vocabolo di oggi qualcuno che con le parole ci sa fare più di noi:

Era una delle fonti di Merlino,
Delle quattro di Francia da lui fatte,
D'intorno cinta di bel marmo fino,
Lucido, e terso, e bianco più che latte,
Quivi d'intaglio con lavor divino
Avea Merlino immagini ritratte.
Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto XXVI**

Pier: Accipicchia! Quanto scommettiamo che gli appassionati di romanzi fantasy staranno impazzendo?
Sai che hai proprio ragione? Non ci si pensa, ma se vi piacciono le storie di magia, in certi poemi dei tempi andati ne incontrerete altrettanta! Certo, non sarà una lettura tanto scorrevole, ma potreste trovarvi le origini più remote di qualcosa che magari eravate convinti che avesse inventato il vostro autore preferito. Vale la pena di fare un tentativo!
Pier: Io mi ci metto subito! Una canna di bambù e un bel libro, questa sì che è vita!
E bravo Pier! Chiudiamo la puntata, così ti lascio alle tue letture. Vi è bastato il nostro spazio di oggi per decidervi a puntare il naso in su ed esclamare: «Che bel cielo terso!», oppure no? Noi speriamo proprio di sì! A presto!
Pier: Ciao ciao!

venerdì 18 aprile 2014

In sala lettura: "Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo"

Tutti a bordo della macchina del tempo!

Salve, amici! Oggi torniamo a rivolgere l'attenzione, com'è giusto in un blog che porta questo nome, a un libro.

Vi avviso fin d'ora che troverete un po' diversa dal solito questa... recensione? Riflessione? Fatico perfino io a trovare il termine giusto, perché le circostanze in cui sono venuta a sapere dell'esistenza del nostro tomo e ho deciso di leggerlo sono piuttosto eccezionali. Holden Caulfield ha un bel dire che un buon libro è quello che ti fa venir voglia di telefonare all'autore (perdonatemi se non sono le parole esatte), ma di norma aver incontrato faccia a faccia la persona dalla cui penna è uscito un libro che ti è piaciuto non è una situazione da tutti i giorni, o sbaglio?

Ebbene, per stavolta mi è capitato. Non sono di certo abbastanza in confidenza con lui da assillarlo con le telefonate-fiume che voleva Holden, ma l'ho conosciuto: Alessandro Barbero, autore (tra gli altri) di Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, che seguivo già all'interno di Superquark e alle cui lezioni, finalmente, ho assistito anche dal vivo. Inondatemi pure di domande nei commenti: la risposta è sì, è identico a quello della TV, non recita per nulla, l'entusiasmo per la storia è tutto autentico. E questo, se permettete, è un gran bel biglietto da visita per un romanzo storico. Una noticina veloce: la copia che ho letto io ha tutt'altra faccia, è un'edizione più recente di cui non sono riuscita a reperire l'immagine.

Già il titolo è di quelli che riempiono di belle speranze: sicuramente qualche topo, gatto, opossum o lemure di biblioteca si sarà accorto del richiamo a La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Sterne, e se fin dalla copertina un autore dimostra di saper citare (attenzione: citare, non copiare. Sul limite fin troppo sottile tra queste due parole ci vorrebbe un post apposito!), l'impressione che se ne ha è che sappia il fatto suo.

Apriamo il libro: sarà vera quest'impressione? Dal modo che ha di sciorinare date fin dalla prima riga si direbbe proprio che almeno gli aspetti della storia che di solito gli studenti detestano li conosca come il palmo della sua mano; eppure non è nemmeno il suo periodo storico d'elezione!

Eh, già, perché sebbene sappia muoversi un po' in tutte le epoche, basta spulciare un elenco delle sue pubblicazioni per rendersi conto che a prevalere è il Medioevo, mentre qui siamo nell'anno di grazia 1806. Non sarà mica che dovremo temere qualche scivolone in questo terreno ostile? Calma e sangue freddo, amici. Forse sarò l'ultima che può giudicare, ma non ho incontrato nulla che mi paresse fuori posto. Certo, per essere evidenti a una profana dovrebbero essere proprio erroracci macroscopici, e con quelli il Premio Strega vantato dal nostro libro non si vince...

E dunque? Un'infinita lezione di storia in salsa appena un po' romanzata, che fa sbadigliare ogni dieci righe? Ma nemmeno per sogno! Le parti un po' monotone, come vedremo, non mancano, ma anche quelle hanno un motivo ben preciso. Leggere questo libro essendo completamente a digiuno di storia è, se devo essere sincera, un'impresa impossibile, perché i riferimenti ai fatti che si studiano a scuola sono tanti e non semplici, ma a parte qualche momento di lotta all'ultimo sangue con le circostanze di questa o quella guerra, farsi prendere dall'atmosfera è fin troppo facile. Pare di essere trasportati nel passato per la ricchezza di dettagli, alcuni divertenti, altri disgustosi, ma tutti ugualmente utili a dare al racconto il giusto colore.

La parte più affascinante del leggere, e probabilmente anche dello scrivere, un romanzo storico, è avere a che fare con personaggi che agiscono, parlano e pensano in modo inevitabilmente diverso dal nostro e si scontrano ogni giorno con situazioni per noi inconcepibili. Voi riuscireste a calarvi nei panni di un tal Mr. Robert Pyle, inviato straordinario degli Stati Uniti d'America presso Sua Maestà il re di Prussia nel 1806? Il nostro autore l'ha fatto, tanto più che il libro si configura come il diario di Pyle, compilato con certosina precisione ogni santo giorno dal 13 luglio al 14 ottobre del fatidico anno, anche quando, visti gli eventi in cui resta coinvolto, non si sa bene come abbia fatto a non dimenticarsene, a non perdere il prezioso libriccino da qualche parte o anche solo a trovare una buona superficie solida su cui appoggiarsi per scrivere.

E a proposito di dimenticare, Mr. Pyle ha proprio una memoria di ferro, vista la fedeltà con cui riporta le frasi rivoltegli in una quantità di lingue diverse (grazie al cielo esiste, almeno nella mia edizione, un simpatico glossario in fondo che aiuta a dipanare la matassa del tedesco, del francese, dell'olandese, del latino e compagnia cantante!). Sorge il dubbio che forse in un autentico diario compilato sul momento non ci sarebbe spazio per dialoghi tanto particolareggiati e complessi, dato che lasciarsi sfuggire qualche parola è umano, ma la narrazione procede sui suoi bravi binari a un ritmo tale che il lettore non se ne accorge se non con il senno di poi.

Per evitare eccessivi spoiler, vi dico soltanto che nel corso dei suoi viaggi (al plurale, perché attraversare l'oceano e poi fermarsi definitivamente in una sola città europea non gli basta) incontrerà un campione umano dalla varietà veramente impressionante, dal più alto dei nobili titolati all'ultima delle... ehm, ragazze di facili costumi. Mi spiace troppo usare certe parole volgari, Lenchen mi sta simpatica e credo di aver maledetto Schill all'infinito per come deve averla trattata nel segreto della sua stanza.

Il povero Pyle viene sbalzato, con un paragone dolorosamente anacronistico, come una pallina da flipper da un ricevimento al cospetto del re a una bettola puzzolente, da un teatro all'ultima moda a un campo di battaglia (se non fosse che il prologo si svolge a distanza di anni, nel 1848, qui e là mi sarei rosicchiata le unghie a sangue per l'ansia), in una tale girandola di ambienti e avvenimenti diversi che se dovessi stilarne un elenco completo riscriverei il libro intero. Lasciate dunque che vi anticipi solo qualche chicca, come per esempio la cena a casa di un tal professor Fichte (che volete che sia? È “solo” finito sui miei libri di filosofia del liceo, dopotutto!) e l'incontro con il grande poeta Goethe, che già la quarta di copertina prometteva e che io sono stata ad aspettare fin quasi alla fine, borbottando tra me: «Okay, lo trova qui... Ah, no, allora nel prossimo posto dove andrà... No, nel prossimo ancora... Alleluia!». Più che seguire passo per passo lo svolgersi della trama, che è tutto un intreccio inestricabile della più elevata politica e della più bassa vita quotidiana, mi converrà dunque riflettere per temi.

Mr. Pyle e i viaggi. Mi credete se vi dico che ogni volta che il diario riportava una fatidica frase simile a “Il giorno tale sono partito per il talaltro posto” mi venivano le lacrime agli occhi? Le sezioni di viaggio sono quelle noiose di cui vi avevo avvertito, e non noiose per carenze stilistiche da parte dell'autore, ma proprio perché viaggiare nel 1806, oltre che essere scomodo, doveva pure far venire il latte alle ginocchia. Dove il protagonista calcola fiducioso di metterci (numero a caso) quattro giorni, state sicuri che capiterà qualcosa per fargliene impiegare otto! Una volta una malattia, una volta un pantano terribile che blocca la carrozza, un'altra non ci sono i cavalli per il cambio, un'altra ancora l'asse delle ruote si spacca in due di netto... Se non fosse che lungo la strada succede sempre qualcosa d'importante per la comprensione di quel che segue, qui e là sarei stata tentata di saltare il tragitto e seguire Pyle direttamente a destinazione, perché alla fin fine, a parte gli eventi straordinari che tengono il lettore incollato anche alle pagine peggiori, ogni racconto di spostamento si riduce a questo: descrizioni della natura del paesaggio fuori dal finestrino, cronache poco simpatiche del pessimo cibo ingurgitato in qualche locanda, irritazione per le infinite lungaggini alle frontiere e un po' di sano sesso descritto con una quantità di eufemismi e pudori (vogliamo parlare delle metafore militari secondo cui il preservativo sarebbe “l'armatura” e i bollori raffreddati vengono paragonati senza batter ciglio a polveri bagnate?). E questo ci conduce a...

Mr. Pyle e le donne. Ecco, questo è forse l'unico aspetto che mi rende il personaggio un po' antipatico. Non fraintendetemi, Mr. Pyle è un gran bel tipetto, quasi quasi mi andrebbe di conoscerlo, ma dovrei trovare un modo per premunirmi, perché se davvero avessi l'occasione di entrare magicamente tra le pagine e stringergli la mano, il mio più grande timore sarebbe di trovarmi a stringere qualcos'altro un po' più giù! Capisco che quando si legge un romanzo storico si debba far voto di sforzarsi di capire il modo di pensare degli antichi e di non indignarsi se esprimono idee che oggi ci risultano strane od offensive, ma sono rimasta colpita in negativo dall'assoluta naturalezza con cui a Pyle capita di allungare del denaro a qualche ragazza in un angolo sperduto della Germania aspettandosi in cambio che si spogli docilmente, e forse ancor più colpita dal modo in cui le donne stesse (la maggior parte di loro, almeno) non si sentono minimamente lese nella loro dignità da questo comportamento. Un conto è una Lenchen, che lo fa per mestiere, un altro è una qualunque locandiera lungo la strada di cui il nostro uomo non si preoccupa nemmeno di apprendere il nome e le cui mansioni, almeno sulla carta, non prevedono di togliersi i vestiti. Eppure basta una mancia un po' generosa perché (quasi) tutte ci stiano, chi con gioia e chi con riluttanza. Non mi resta che sospirare, stringere i denti e ripetermi che allora era così e basta. Non penso che Mr. Pyle sia dipendente dal sesso o qualcosa di simile, anche se i momenti inopportuni in cui viene colto dal desiderio sembrano confermare quella diceria secondo cui gli uomini avrebbero pensieri di quel genere ogni sette secondi. Fa solo parte di un mondo ormai estraneo. Sta di fatto che leggendo di quell'unica, benedetta volta in cui una ragazza mette in chiaro di non avere intenzione di rendergli quel tipo di servizio, la parte di me che tifava per Pyle si è rattristata, mentre la mia femminista interiore, al vederlo rifiutato, gridava: «Ben gli sta!».

Mr. Pyle e gli stranieri. A proposito di idee offensive, soffermiamoci un attimo sul rapporto che il nostro protagonista ha con gli altri popoli. Pyle ha un bell'arrabbiarsi quando sente qualcuno esprimere convinzioni assurde sui suoi Stati Uniti, che non erano ancora neanche lontanamente la potenza che sono oggi e che molta gente non sapeva nemmeno dove fossero, ma a sua volta non risparmia proprio nessuno: incrocia esponenti di tantissime nazionalità e per ciascuno ha sempre qualche parola da spendere, nel suo caro diario, su quella che crede sia la natura di quel popolo. Sotto i colpi della sua penna cadono come mosche inglesi, olandesi, tedeschi, francesi, italiani, polacchi, ebrei e – con un termine che non so quanto possa essere appropriato – afroamericani. Tutti hanno per lui qualche difetto connaturato, che riconosce infallibilmente in ognuno, come se l'eccezione fosse semplicemente impensabile, e il domestico di colore che si è portato da casa, Will, si prende a sua volta la sua brava dose di frecciate. Il loro rapporto è ancora sorprendentemente buono: la condizione giuridica di Will non è quella di schiavo e il peggio che io ricordi nei loro scambi di battute è uno “stupido negro” rivoltogli quando viene fuori che i conti non tornano e alle finanze di Pyle mancano misteriosamente dei soldi, ma certe affermazioni, ripetute in pubblico ai nostri giorni, basterebbero e avanzerebbero per guadagnargli parecchi nemici.

Per non parlare poi degli ebrei! La “disgraziata razza” (parole sue, non mie) è oggetto delle peggiori considerazioni da parte di Pyle e di parecchi altri personaggi, e c'è un passo che vale la pena di citare perché mi ha messo un brivido.

«[...] I miei compagni di studio sono già occupati a compilare liste di proscrizione in previsione del giorno in cui conquisteranno il potere: il discendente, sia pure in settimo grado, di un francese, di un ebreo o di uno slavo sarà condannato all'esilio.» «Ma queste son cose che si dicono» risposi spazientito dalla sua ingenuità; «figuratevi un po' quale governo potrebbe mai considerare sul serio dei provvedimenti come questi!»

Ora ditemi voi se, col senno di poi, non ricorda un po' troppo Hitler.

Da parte di un lettore distratto e dall'accusa troppo facile, dunque, il nostro professore con questo libro potrebbe prendersi del sessista, del razzista e fors'anche del neonazista e, non ne dubito, un sacco di altri pericolosissimi “-ista”, ma questo significherebbe commettere un grave errore di comprensione. L'immedesimazione è la chiave di tutto: quando un autore assume la maschera di un personaggio che la pensa in modo tanto diverso, bisogna stare ben attenti a tenere i due separati e a ricordare a se stessi a ogni piè sospinto che se Pyle dice una cosa, è perché la crede solo e soltanto Pyle, non certo Barbero. Dargli del razzista perché quei talleri scomparsi spingono il caro Robert a pronunciare parole politicamente scorrette significherebbe non aver capito nulla.

Insomma, seicento e passa pagine che vale la pena di affrontare se volete un libro scritto con vera cognizione di causa, ma che non consiglierei a chiunque. È onestamente il miglior romanzo storico che io abbia letto negli ultimi tempi, ma se non siete già lettori forti del genere posso quasi garantire che non vi piacerà. Se siete pratici, mettetelo nella lista “da leggere” e non ve ne pentirete, ma se non ne avete mai preso in mano uno, usate qualcosa di più leggero come introduzione a questo mondo e poi provatelo più avanti.

Valutazione complessiva: 

martedì 8 aprile 2014

Il topo buongustaio

Una serie di sfortunati... spaghetti!

Salve a tutti! No, non sono scomparsa, ho solo avuto qualche impedimento nella vita al di fuori della mia bibliotechina. Oggi però ritorno con una compensazione davvero gustosa per la mia assenza! E se vi dico “gustosa” capite già chi arriva, vero?
Rémy: Ciao a tutti!
Bentornato, Rémy! Pronto a darmi una mano con la puntata di oggi? E voi, siete pronti a riaccendere i fornelli? Spero che li abbiate tenuti ben pulitini nell'attesa, altrimenti farete proprio la fine dei poveri personaggi che chiamiamo in causa questa volta, costretti ad avere a che fare con una cucina in cui l'igiene lasciava alquanto a desiderare e anche gli ingredienti a disposizione scarseggiavano assai...
Rémy: Brr... Altro che Cucine da incubo!
Non sapevo che guardassi quel genere di programmi! In effetti non riesco nemmeno a concepire come reagirebbe il nostro cuoco urlatore Gordon Ramsay di fronte a una cosa di questo tipo...

Ebbene sì: oggi chiamiamo in nostro aiuto i poveri orfanelli Violet, Klaus e Sunny Baudelaire di Una serie di sfortunati eventi, che, come qualcuno di voi ricorderà, furono costretti a sfamare un'intera compagnia teatrale a partire da una cucina in condizioni disperate. E cosa si fa quando le risorse a disposizione sono pochine? Ci si rifugia su un piatto che, a qualunque versione della storia della sua nascita si voglia credere, comunque conserva origini semplici.
Rémy: Eh, in effetti come nome è poco fine...
Dettagli, dettagli... Non ti metterai a fare l'aristocratico proprio adesso, vero? Ricorda: i nostri amici erano messi davvero male...
Rémy: E va bene, allora passiamo alla ricetta.
Eh, già: a qualcuno forse brontolerà lo stomaco. E dunque, senza attendere oltre, se qualcuno non si ricorda cosa mai riescono a rimediare i nostri eroi con la poca roba lasciata loro dal malvagio Conte Olaf, ecco a voi...

Spaghetti alla puttanesca

Ingredienti
per 6 persone
600 g di spaghetti
3 cucchiai di burro
3 cucchiai di olio extravergine di oliva
6 acciughe dissalate pestate a poltiglia in un mortaio
3 spicchi d'aglio affettati fini
200 g d'olive nere snocciolate e affettate
un cucchiaio di capperi salati lavati e tritati grossolanamente
600 g di pomodori spellati e tagliati a filettini
un cucchiaio di prezzemolo tritato
sale
Preparazione
20 minuti per la preparazione + 8 minuti per la cottura
Mettete sul fuoco una padella piuttosto larga e fatevi scaldare assieme il burro e l’olio, quindi aggiungetevi l’aglio tagliato finemente e le acciughe dissalate e precedentemente pestate in un mortaio o triturate finemente.
Appena l’aglio prende colore e le acciughe si sciolgono, unite le olive snocciolate e tagliate a metà, i capperi tritati grossolanamente e i pomodori spellati e sfilettati.
Fate quindi insaporire la salsa a fuoco alto per pochi secondi mescolando continuamente.
Nel frattempo cuocete gli spaghetti al dente in abbondante acqua salata, scolateli e poneteli nella zuppiera in cui li servirete, quindi ricopriteli con la salsa precedentemente preparata e cospargeteli di prezzemolo.
Mescolate e servite caldi i vostri deliziosi spaghetti alla puttanesca!

Rémy: Un momento, ci sono parecchie cose che non mi tornano...
Non hai tutti i torti: innanzitutto il tipo di pasta che il regista (perdonatemi se mi baso di più sul film per oggi, ma non ho a disposizione il libro al momento in cui scrivo) fa loro trovare sparsa negli sporchissimi cassetti è diverso, e poi vi sfido a trovare olive, acciughe e capperi in una cucina che ha poco o nulla... In effetti probabilmente la versione preparata dai nostri orfanelli era ulteriormente semplificata, ma ho preferito andare sul sicuro e proporvi quella tradizionale invece di perdermi in strane varianti.
Rémy: Almeno è pasta! Ci voleva proprio!
Te ne sei accorto, eh? Con il piatto di oggi possiamo ufficialmente dire che è possibile creare un menu libresco completo di primo, secondo e dolce scegliendo solo dalle ricette della rubrica! È un momento da celebrare! Che ne dite di dare una bella festa con tutti i vostri amici topi di biblioteca? Potete mangiare, leggere insieme, parlare di libri all'infinito e chissà, magari anche fare qualche gioco basato sulle vostre storie preferite! Basta scatenare la fantasia!
Rémy: Evviva! Che idea simpatica! Vado a organizzarmi subito! Au revoir!
A presto, amici! Alla prossima ricetta!

venerdì 4 aprile 2014

Le parole di Piermario

Sesta puntata

Salve a tutti, e bentornati nel nostro spazio sulle parole da salvare!
Sapete tutti cosa vuol dire, vero? Dite ciao a Piermario, il Panda del Vocabolario!

Pier: Geronimo!
Come, scusa?
Pier: Ho detto che oggi voglio essere chiamato Geronimo, il Panda del Sinonimo! Il mio secondo nome!
Questa, poi... Che è successo, Geronimo, hai scoperto che piace di più alla tua ragazza?
Pier: No, mi va e basta.
Ehm, okay, lo terrò a mente. Pronto con la busta?
Pier: Pronto! Via al conteggio!
Tre... due... uno... apri la busta!

Pier: La parola di oggi è... “cocciuto”!
Proprio come te con questa storia del nome!
Pier: Ehm... e va bene, avevo dato una sbirciatina in anticipo, chiamami come ti pare, facevo finta.
Ma guarda un po' questo furbastro! Ti eri preparato la battuta senza dirmi niente! Regia, ha complottato con voi alle mie spalle? Quasi quasi mi passa la voglia di chiedervi l'aiutino...
Pier: No, dai, che puntata è senza?
Va bene, va bene... Cosa ci proponete quest'oggi?

Pier: Ma guardalo, poveretto... Tira e tira e quello niente, non si smuove di un millimetro!
Praticamente l'incarnazione della nostra parola, dunque. Vediamo un po' che ci dice l'immortale Zingarelli 2008:

cocciuto agg.; anche s.m. Che (o Chi) si ostina nell'agire, pensare, esprimersi a modo suo, senza tener conto di critiche e di consigli. sin. Caparbio, ostinato, pervicace, testardo.

Un po' come il mulo della vignetta sopra (d'altronde asini, muli e similari sono i primi animali che vengono in mente quando vogliamo un paragone efficace per una persona che si ostina a far di testa propria, no?), oppure, volendo, come il nostro panda...
Pier: Ehi! Ma se facevo finta!
E lo facevi fin troppo bene!
Pier: Sono o non sono un attore?
In effetti se hai superato l'audizione un motivo ci sarà... Bene, allora metti le tue doti da re del palcoscenico al servizio della prossima parte della puntata e indossa i tuoi soliti panni da Sherlock: si va a scoprire l'origine della protagonista di oggi!
Pier: Subito!
Eccellente. Vediamo che sorprese ci riserverà la storia della nostra parola.

cocciuto da coccia in senso di testa.*

Pier: Ma come, non c'entra il latino, stavolta? Mi ci stavo abituando...
C'entra, c'entra, ma un po' più alla lontana: riaprendo il fido Zingarelli infatti scopriamo che la parola “coccia” di significati ne ha tantissimi, molti dei quali impossibili da conoscere se non si è pratici di campi ben precisi, dalla scherma al teatro, ma tutti più o meno riconducibili a un oggetto che abbia all'incirca la forma di una conchiglia, perché deriva, attraverso una quantità di passaggi, da cŏchleam, ossia “chiocciola”. E siccome anche la testa è tondeggiante come certe conchiglie e soprattutto dura, ecco che uno dei sensi possibili, soprattutto nelle parlate centro-meridionali, è proprio “testa”.
Pier: Ed ecco che rispunta il solito latino...
Eh, già. Difficile non trovarlo, è coinvolto dappertutto. Giocando ancora a fare Holmes, potremmo dire che il signor latino è un po' il nostro professor Moriarty: si arriva sempre a lui prima o poi.
Pier: Però non è proprio un nemico, è solo onnipresente come il prezzemolo!
Oh, credimi, ho conosciuto persone per cui il latino era un nemico eccome... Sono contenta che non lo sia diventato per te!
Pier: Pensa un po' che io mi aspettavo tutta un'altra cosa, sai?
Ah, sì? E cosa?
Pier: Be', ecco, Anna mi ha raccontato che è stata a Roma e che là, quando qualcuno si comporta come dice la nostra parola, gli si risponde: «Sei de coccio!». Quindi pensavo che c'entrasse qualcosa il materiale, altro che le conchiglie.
E bravo Pier! Sai che non è una brutta ipotesi neanche la tua? Un vaso di coccio, se viene colpito, fa un suono sordo, un po' come la testa dura della personcina cocciuta in questione!
Pier: Però è fragile, va in frantumi come niente...
In compenso, però, è quasi impossibile da distruggere completamente. Hai presente i vasi antichi, quelli esposti nei musei e tutti pieni di crepe? Sono fatti così perché, con tanta pazienza, le scritte e le figure che vi sono dipinte sopra si possono quasi sempre ricomporre. L'unico modo per farle andare perdute sarebbe di polverizzarli del tutto, non basta farli a pezzetti. Se non sono cocciuti loro, che dopo secoli e secoli si fanno ancora vedere nonostante tutto quel che è successo...
Pier: Questo sì che è un bel genere di cocciutaggine!
Parole sante! Che ne dici di scoprirne un altro ancora?
Pier: E come?
Con l'esempio di oggi! Eccolo qui:

I fatti sono cocciuti, la morte il più cocciuto dei fatti.
Gesualdo Bufalino, Il malpensante. Lunario dell'anno che fu**

Pier: Che frase strana... Pensavo che “cocciute” potessero essere solo le persone!
E invece no, non proprio. Il nostro autore di oggi, che forse qualcuno non conoscerà...
Pier: Eh, già, non è proprio un mostro sacro come i soliti, vero?
No, però non è neppure l'ultimo arrivato, sia ben chiaro! Dicevamo: suppongo che intenda dire che certi fatti non si può proprio evitare che avvengano e certi altri, anche se magari si potevano scansare prendendo qualche decisione diversa, una volta accaduti purtroppo non si cancellano più. È triste, ma ha proprio ragione, e giocando con le parole possiamo anche dire che un fatto che si ostini a rimanere lì, con le sue conseguenze pesanti, sia un po' cocciuto. Il dizionario non sarebbe tanto d'accordo, forse, ma il bello di una lingua sta anche lì: prima s'imparano le regole, poi s'impara anche a infrangerle. Un conto è fare un erroraccio di grammatica, un altro è prendere una parola e piegarne il senso come fa più comodo! Magari non vi capiranno al volo, ma si può sempre tentare. È divertente!
Pier: Chissà cosa direbbe Anna se ci provassi io...
Raccontamelo, se ti capita, mi raccomando.
Ebbene, amici, vi ricorderete di dare del “cocciuto” a quello là che proprio non vuole sentire ragioni? Tutti ne abbiamo uno! Arrivederci alla prossima parola!
Pier: Ciao ciao!