lunedì 31 marzo 2014

Le parole di Piermario

Quinta puntata

Salve a tutti, e bentornati nella rubrica di Piermario, il Panda del Vocabolario! Vogliamo cominciare? Su, Pier, una bella entrata trionfale!
Pier: Salve...
Ma stai bene? Dov'è la tua solita allegria? Vuoi un po' di bambù per ridarti la carica?
Pier: Non ho fame...
Oh, bella! Ti sei preso l'influenza?
Pier: Eh, no, però forse è vero che sono malato...
Non fare il misterioso, spiegami cos'hai, se no non riusciamo ad andare avanti con la puntata!
Pier: No, dai, mi vergogno un po', mettiamoci al lavoro e magari te lo dico dopo. Scusate il disagio, tutti quanti.
Ahi, ahi, ahi, il nostro panda è arrossito! Almeno credo, sotto il pelo non si vede bene... Suvvia, se sei pronto, ti faccio il conto alla rovescia. Tre... due... uno... apri la busta!

Pier: La parola di oggi è “flebile”!
Adeguata all'atmosfera sottotono, direi... Nell'attesa di estorcere il gran segreto al nostro amico, regia, cosa ci puoi proporre al riguardo?

Pier: Sarebbe a dire?
Accipicchia, regia, andiamo sul complicato... Chi non è pratico di musica ci starà guardando malissimo!
Pier: Musica! Ma certo, che bella idea! Non sono granché come pianista con queste zampe, ma...
Eh? Si può sapere di che parli? Dicevamo, chi suona uno strumento probabilmente lo saprà, ma a beneficio di chi invece di spartiti non capisce un'acca converrà spiegare che questa doppia P vuol dire “pianissimo”: se la trovate all'inizio di un brano, significa proprio che va eseguito a basso volume, con un suono che la parola di oggi, appunto, descriverebbe molto adeguatamente. Il fido dizionario (Zingarelli 2008) riporta:

flebile agg. 1. Di suono o voce fievole, sommessa, tenue | (est.) Esile.
2. (lett.) Lamentoso, supplichevole, dolcemente triste. sin. Fioco.
3. (mus.) Indicazione espressiva che richiede scarsa intensità di suono.

Pier: E quindi la regia aveva proprio ragione.
Come sempre, d'altronde. Visto, che la musica c'entra? La nostra parola descrive un suono sommesso così bene, ma così bene, che è perfino diventata un termine tecnico! Buona a sapersi.
Adesso ti decidi a sputare il rospo, o preferisci partire prima per la solita missione investigativa? Quella di oggi avrà una sorpresina...
Pier: Allora occupiamoci prima di quella, al pubblico interesserà sicuramente più della mia... ops!
Ah, e quindi hai una sorpresa per noi e vuoi tenere la bocca cucita fino all'ultimo, eh? Questo spiega molte cose...
Pier: A fine puntata te lo dico, promesso. Preferirei un bel fuori onda, a dir la verità...
Spiacente, ma le novità succose vanno trasmesse! Se no dove va a finire l'audience?
Pier: Mi fai morire di vergogna, è una faccenda personale! Smettila!
Va bene, va bene! Cappello, pipa, impermeabile e via! Vediamo un po' cos'ha in serbo per noi la storia della nostra parola.

flebile dal latino flebĭlis che deriva da flere cioè “piangere”*

Pier: Un po' diverso da quel che ci si aspetterebbe, no?
Eh, già! A sentire l'origine, si direbbe che il significato con cui la parola nacque fosse più simile al numero due, eppure, guarda un po', perfino secondo il vocabolario è passato in secondo piano e ormai, addirittura, è di uso solo letterario, soppiantato nel parlare comune (o non così comune, se è in estinzione) da tutt'altra cosa.
Pier: Che bizzarrie succedono quando passa il tempo...
Però! Bravo, Pier! “Bizzarrie” invece di “stranezze”, a quanto pare ti stai già sforzando un pochino... non è che adesso dobbiamo fare una puntata nella puntata?
Pier: Ehm... pensavo che potesse... lasciamo perdere, okay? Ragioniamo un po' su come sia capitato, invece.
Se lo dici tu... Dunque, di certezze ce ne sono pochine, ma direi che una logica nel passaggio di significato c'è, in fondo. Dopotutto, quando vuoi suonare lamentoso o supplichevole, come parli?
Pier: Direi abbastanza piano...
Infatti: se non pensiamo a un pianto rumoroso e pieno di strilli, ma piuttosto a un singhiozzare sommesso, la nostra parola è perfetta anche nel senso numero uno, eppure conserva intatta la sua origine dal verbo “piangere”. E se non lo sai tu, che quando fai quel faccino da cucciolo bastonato inteneriresti anche un cuore di pietra, non lo sa nessuno!
Pier: Tu dici?
Un po' di autostima, Pier! A chi non piacciono i panda? Non ti si può dir di no quando fai gli occhi dolci!
Pier: Sinceramente, adesso lo so io a chi m'interessa piacere...
Ohi, ohi, ohi, comincio a fiutare la natura della grande rivelazione! Voi no? Regia, io direi di prepararci a far partire la marcia nuziale...
Pier: Come, come? È un po' prest... volevo dire, perché mai?
Beccato! Con l'inizio della primavera, l'amore è nell'aria, a quanto pare...
Pier: Oh, e va bene! Mettitelo tu, il cappello! Sei proprio sulla strada giusta... però il resto a dopo!
Ma è una notizia bellissima! Perché ti vergogni tanto?
Pier: Siamo in pubblico, ed è una questione privata!
Capisco, tutti abbiamo bisogno di uno spazio personale. Non intendevo negarti il tuo, ma è il prezzo della celebrità! Ancora non sappiamo chi sia la fortunata, ma chissà come sarà contenta di conoscere una star!
Pier: Se la metti così...
Regia: Sorridi, Romeo, dopo c'è una sorpresa nella sorpresa!
Perdincibacco! Addirittura un intervento dalle alte sfere! Chissà cosa ti avranno preparato...
Pier: Oh... Se è quello che penso, l'esempio fallo pure da sola, io devo andare a lisciarmi il pelo! Scusami tanto!
Okay, lasciamo il nostro vanitoso amico alle sue accurate operazioni di toelettatura e vediamo un po' quale signor scrittore possiamo ripescare oggi.

In queste voci languide risuona
Un non so che di flebile e soave
Ch’al cor gli scende, ed ogni sdegno ammorza,
E gli occhj a lagrimar gli invoglia e sforza.
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, Canto XII**

Pier: Magari sapessi scrivere così... Chissà, forse le piacerebbe...
A scrivere una poesia alla misteriosa signorina puoi anche provare, ma non ti auguro proprio di trovarti in una situazione come quella sopra: pensa un po' che questi versi riguardano un innamorato che ha appena ucciso la sua lei... Brutto esempio per un giorno così, lo so!
Pier: Che cosa triste... Altro che voce lamentosa, qui mi viene da piangere sul serio!
Tirati su, Pier, per favore! Se ho capito bene cos'ha in mente la nostra regia, devi essere al meglio! Un bel sorriso! Alla fine è “solo” un poema: bellissimo, importantissimo e tutti gli “-issimo” che vuoi, ma non sono mica cose successe davvero!
Pier: Lo spero bene...
Regia: E allora, Pier, sei pronto?
Pier: Eccome!
Regia: Ebbene, signore e signori, dimenticate per un momento di essere in una rubrica sulla lingua italiana e fingete di trovarvi nello studio di uno di quei programmi di riunioni strappalacrime, perché la fortunata pandina che ha fatto prendere al nostro assistente un brutto caso di mal d'amore... è qui!
Pier: Anna! Annina mia! Come hanno fatto a farti arrivare qui?
Anna: Lunga, lunghissima storia... Per ora al pubblico basti sapere chi sono. Mi presento, sono Annarita, la Pandina Forbita, e questo adorabile esemplare di bianconera sofficità è il mio ragazzo! Da poco, s'intende...
Pier: Eh, già! Sapessi come sono contento che ti abbiano fatto entrare in studio... Mi mancavi così tanto che mi era perfino passato l'appetito!
Anna: Oh, che cosa dolce... Però non deperire per me, eh? Anzi, sai che ti dico? Dopo la puntata andiamo a mangiarci un po' di bambù insieme!
Pier: Volentieri! Conosco un posto dove ci sono certi germogli che...
Ehm, scusatemi, sono qui anch'io! Ehi, piccioncini? Prometto che vi lascio subito soli, ma la puntata bisognerà pur chiuderla! Un po' di contegno!
Pier: Ops...
Anna: Non volevo distrarti troppo, tesoro.
Pier: Figurati. Un salutino e poi sono tutto per te!
Bene, allora direi che con questo lieto annuncio lo spazio di oggi si conclude qui. Vi abbiamo fatto venir voglia di dire a qualcuno di usare una voce un po' meno “flebile” quando vi parla piano piano e non sentite bene? Io spero proprio di sì, e sono sicura che anche Pier sarebbe d'accordo se non fosse già in dolce compagnia...
Anna: Oh, ma anch'io trovo che stiate compiendo un'opera davvero ammirevole! Adoro le parole! Più sono, meglio è!
Pier: Ci siamo trovati così, grazie al programma! Abbiamo un sacco di cose in comune: l'italiano da salvare, il bambù...
Anna: Siamo fatti l'uno per l'altra!
Che bella notizia! Con questo dobbiamo proprio salutarci, amici. A presto!
Pier: Arrivederci alla prossima puntata!

domenica 30 marzo 2014

L'effetto Barbie

Corpi impossibili ieri e oggi

Salve a tutti, belli e brutti.
E a proposito di belli, oggi si parla proprio di questo: di bellezza, o meglio, di com'è cambiata e delle stranezze che la gente era (ed è) disposta a fare per averla. Spero mi perdonerete, lettori dotati di cromosoma Y, se mi soffermerò principalmente sul lato femminile della questione: sono una donna anch'io, conosco meglio il campo. Attenzione, alcune delle immagini che seguiranno potrebbero risultarvi disgustose o inquietanti. Se non vi ritenete sufficientemente forti di stomaco, non ve ne farò una colpa.
Partiamo da lontano. Questo vi sembra bello da vedere? Spero per voi che abbiate risposto di no. Ebbene, c'erano popolazioni – Maya e Incas, per nominare solo le due più note – perfettamente convinte che una testa di questa forma denotasse un'origine nobile: se la ragione per sottoporre i bambini in tenerissima età a fasciature strette e altri sistemi anche molto dolorosi di deformazione artificiale del cranio non era dunque esclusivamente estetica, ma piuttosto economica e sociale, possiamo supporre con un certo grado di sicurezza che un aspetto “da ricchi” fosse anche considerato desiderabile*. Cosa questo significhi per il cervello, ci vorrebbe un medico per dirlo e io non lo sono, ma a occhio e croce non può trattarsi di conseguenze piacevoli. Voi lascereste che una cosa del genere fosse fatta a un vostro ipotetico figlio, fratellino, nipotino o altro parente qualsiasi la cui scatola cranica sia ancora suscettibile di trasformazioni? No, vero? Eppure di spinte verso un corpo dalle forme innaturali ne riceviamo ancora, tutti, da ogni parte. Magari non fisiche, ma ne riceviamo.
Sempre parlando di deformazioni, spostiamoci in tutt'altro angolo di mondo e facciamo un altro esempio forse più celebre: quello dell'antica usanza cinese di fasciare i piedi delle donne in modo da ostacolarne la crescita. Nell'immagine un confronto tra un piede lasciato libero di svilupparsi e uno sottoposto a questa pratica. Se anch'essa aveva i suoi bravi motivi sociali (una donna con difficoltà a camminare era materialmente dipendente dal marito: le fasciature infatti si effettuavano a età diverse e con tecniche diverse a seconda della necessità o meno che le bambine fossero abili al lavoro, ed escluderle da subito da un'occupazione fisicamente impegnativa indicava la speranza che trovassero uno sposo sufficientemente abbiente da mantenerle), è altrettanto accertato che i piedi piccoli (tra i 7 e i 12 centimetri), soprannominati Loto d'oro o Gigli d'oro, e la caratteristica andatura oscillante che conferivano, avessero per gli uomini anche una forte valenza erotica, paragonabile a quella che in Occidente ha il seno, e che l'abbigliamento femminile facesse del suo meglio per esaltarli tra scarpine finemente lavorate e pantaloni dall'orlo colorato**. 
Pare che addirittura la scarpetta di cristallo di Cenerentola in origine non fosse altro che una pantofolina di pelo di fattura cinese passata attraverso un errore di trascrizione, e che quindi la protagonista dimostrasse di essere la più bella e nobile di tutte proprio perché i suoi piedi erano particolarmente piccoli. C'è chi dice che una scarpa di vetro o cristallo come quella che immaginiamo noi, infatti, sia fisicamente impossibile: bella da vedere su una modella seduta, magari, ma non indossabile per camminare né tantomeno ballare, perché si frantumerebbe sotto il peso del corpo con tutte le dolorose schegge del caso. Se ho appena distrutto qualche infanzia, ve ne chiedo umilmente perdono.
Ma queste, direte voi, sono cose lontane nel tempo e nello spazio, che non ci riguardano: la nostra società non fa cose del genere. Spiace dirlo, ma se l'avete pensato siete nel torto: l'Occidente ha prodotto eccome tentativi di modificare il corpo umano in nome di un ideale di bellezza e di presunta salute, solo che, invece che in cima o in fondo, bisogna andarli a cercare nella sua parte centrale.
Ci siete già arrivati? Sto parlando dell'abitudine di indossare sotto gli abiti femminili il celeberrimo corsetto irrigidito da tutta una serie di materiali rari (stecche di balena) o, in mancanza di essi, anche più comuni (rinforzi in vimini o metallici), per inseguire il mitico “vitino di vespa”. Se ne associa l'uso tipicamente al XIX secolo, ma i primi paragonabili a quelli che tutti abbiamo in mente risalgono al XVI e sono delle autentiche gabbie di metallo che non sarebbe troppo scorretto definire, per peso e scomodità, delle mini-armature. Caratteristiche, queste, che (per fortuna!) li fecero presto tramontare in favore di versioni sempre strettissime, ma almeno più leggere.
Oltre alle ragioni estetiche ce n'era, stavolta, una medica: si era interamente persuasi che la donna, per natura più fragile dell'uomo, avesse bisogno del corsetto come sostegno. Si tentava poi di “dimostrarlo” facendo magari provare a camminare senza una donna che l'avesse portato da sempre, senza comprendere che a renderlo impossibile erano proprio le deformazioni ossee portate dal suo uso. Qualcuno, per la precisione Samuel Thomas von Sömmerring, si era già accorto dei pericoli nel 1793, ma ciò non impedì alla corsetto-mania di dominare la moda femminile e, in versione un po' meno estrema, anche maschile del secolo a venire. Sua l'illustrazione che confronta un corpo di donna naturale con uno modificato dal busto***.
Se questi stilisti e queste fashion victim ante litteram ne avessero avuto la possibilità, sicuramente avrebbero ristretto i vitini dei soggetti delle prime fotografie con Photoshop, non credete? Ma le meraviglie della grafica erano ancora un sogno e l'inventiva umana preferiva la soluzione drastica di intervenire direttamente sul corpo piuttosto che sulla sua immagine.
Ma sarà tanto più salutare deformare le ragazze di copertina con qualche clic? Di certo ha l'enorme vantaggio di non essere doloroso, ma da qui a pensare che il nostro ideale di corpo umano abbia raggiunto il perfetto accordo con la natura ne passa, di acqua sotto i ponti. Per quanto si ripeta all'infinito che le modelle che compaiono sulle riviste, per essere così scolpite, oltre che per diete ed esercizi sono passate anche attraverso una pesante mano di aiutini al computer, resta il fatto che un'immagine colpisce più di mille parole, e che se una figura di donna con gambe chilometriche, pancia artificialmente appiattita e seni aumentati con una mastoplastica additiva che invece che in sala operatoria avviene su uno schermo ci viene proposta insieme a un bombardamento di messaggi che in sostanza dicono “Quella lì sì che è bella”, tenderemo più o meno consciamente a crederci. È naturale e non è detto che siamo tutti sciocchi pecoroni per questo: un conto è credere ciecamente a qualsiasi panzana ci venga raccontata, un altro è comportarsi secondo meccanismi inevitabili legati a come funziona il nostro cervello. Neanche il più smaliziato di noi può liberarsene del tutto.
Ma se un corpo tonico si può ottenere con uno stile di vita sano e chi s'impegna per averlo, nei giusti limiti e coi giusti metodi, considerando la salute come obiettivo primario e la bellezza come un bonus aggiunto, è solo da stimare, un fisico come quello creato da un programma di grafica, a meno di non sottoporsi a una lunga serie di interventi chirurgici che riproducano nella carne gli effetti impressi ai pixel, è proprio impossibile e, a ben vedere, non auspicabile: gli esperti, a parte qualche errore clamoroso, di solito sanno quale sia il confine tra un risultato che funziona e uno grottesco e si fermano prima di raggiungerlo, quindi a colpo d'occhio non lo vediamo, ma una donna con quelle forme camminerebbe male, curva per l'eccessiva fragilità delle gambe lunghissime unite al seno troppo pesante.
E a proposito di dubbie proporzioni, trasferiamoci dalle donne di carta patinata a quelle di plastica e pensiamo un po' ai modelli con cui giocano le bambine. Preparatevi a essere stupiti: se l'intramontabile Barbie diventasse magicamente una ragazza reale, ma conservando, in scala, tutte le sue misure, cosa pensate che accadrebbe? Problemi posturali, forse? No, peggio. Addirittura non potrebbe fare una vita normale! Sempre che sopravviva, il che non è così scontato.
In sintesi, una donna con il corpo di Barbie avrebbe, dall'alto in basso, questa impressionante serie di patologie:
- una testa di circonferenza superiore alla media che il collo, più lungo e sottile del normale, non riuscirebbe a sostenere;
- spazio nell'addome solo per mezzo fegato e una manciata di centimetri d'intestino;
- un rapporto tra vita e fianchi di 0,56, quando il valore medio è 0,80 (forse il mito della vespa non è morto);
- polsi troppo esili per eseguire qualunque lavoro di sollevamento pesi;
- gambe più sottili di quanto sia naturale e del 50% più lunghe delle braccia contro una media del 20%;
- impossibilità di camminare se non a gattoni per una combinazione di caviglie troppo fragili, piedi di una misura da bambina innestati su un corpo adulto e cattiva distribuzione del peso del corpo, con troppa massa nella parte alta e poca in basso.
E sappiamo tutti cosa può succedere facendo giocare una bambina solo con bambole di un certo tipo, vero? Be', sicuramente lo sapeva Manzoni, che si è ben premurato di includere i giocattoli di Gertrude tra i metodi di coercizione applicati dalla sua famiglia...

Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto; come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: - bello eh? - […] Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo IX****

Con questo non dico di bandire le Barbie dai giochi delle bambine, anche perché ormai è difficile se non impossibile: o con lei o con qualcun'altra che le somiglia verranno in contatto di sicuro, a casa di amichette se non nella propria, e cercare di evitarlo equivale più o meno a svuotare l'oceano con un cucchiaino. Prego soltanto di avere l'accortezza di alternarle con qualche immagine più accessibile, perché di storie di vite rovinate o finite in nome di un ideale irraggiungibile se ne sentono fin troppe.


Fate un confronto tra queste foto. Entrambi i risultati sono frutto, in tutto o in parte, di sacrifici, ma l'atteggiamento alla base è sano in un caso e malato nell'altro. A certi livelli, si parla di stili di vita che a quello di una futura monaca hanno poco da invidiare quanto a restrizioni.

Prima di decidere di seguire il proverbio “Chi bella vuole apparire un po' deve soffrire”, cercate almeno di avere le idee chiare su quale di queste due ragazze sia davvero bella. Vi chiedo solo questo.

sabato 29 marzo 2014

Il topo buongustaio

Cosa ci sarà dall'altra parte dello specchio?

Un saluto a tutti i miei lettori.
È ora di mettersi di nuovo ai fornelli, ma prima, come avrete già indovinato, è doveroso fare un salutino al nostro assistente. Sei pronto, Rémy?
Rémy: Prontissimo! Salve a tutti!
Bravo, topolino, mi piace questo entusiasmo. Ebbene, oggi ci viene in aiuto un altro bel pezzo da novanta, e – lo dico con gran sconforto del nostro amichetto – si tratta di nuovo di un autore inglese.
Rémy: Parbleu! Di nuovo? Ma non ne conosci altri?
Eh, probabilmente questi inglesi sono dei golosoni, perché trovo particolarmente facile scovare del cibo nei loro libri! Mi spiace tanto, prometto che ti rifarai.
Rémy: Eh, no! Stavolta non ci casco più! La prossima volta esigo qualcosa di francese! Sono secoli che me lo prometti e non lo fai mai!
Ehm... okay, posso provarci. Alla prossima puntata si va in Francia.
Dicevamo: per oggi si torna in Inghilterra, anche se forse non è proprio la definizione giusta.
Rémy: Ah, no? Allora forse ho qualche speranza...
Oh, dai, non mi terrai ancora il muso, spero! Comunque, a fornirci l'idea per la ricetta è nientemeno che Lewis Carroll, che la fa mangiare (o meglio, tentare di mangiare) alla sua Alice nel secondo libro a lei dedicato, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò.


Dunque non è tanto appropriato dire che si vada in Inghilterra, quanto piuttosto in una sua versione di sogno infarcita di riferimenti alla sua cultura e pure alla cucina, ma che viaggia su un binario tutto suo.
Per chi ha un po' di confusione in proposito, senza dubbio dovuta alla Disney che fonde elementi di entrambi i volumi in un unico film d'animazione, lasciate che vi spieghi: un conto è Alice nel Paese delle Meraviglie, pieno di ammiccamenti al gioco delle carte, in cui la piccola protagonista comincia il suo viaggio cadendo in una tana di coniglio, e un altro è Attraverso lo specchio, pesantemente basato sugli scacchi, in cui la stessa ragazzina, già un po' più grande, visita un mondo alla rovescia che si trova dall'altro lato di un grande specchio nel suo salotto. E come sappiamo che è più grande? Facile: nel primo continua a parlare della sua gattina, con una certa insensibilità, peraltro, dato che le sfugge sempre di farlo davanti a topi e a un gran assortimento di altri animali che ne hanno paura, mentre nel secondo la micia ha avuto dei cuccioli.
Rémy: Aiuto! Non mi piace questa Alice! Non sa proprio quando tenere la bocca chiusa!
Appunto, visto? Tornando a noi, Walt Disney ha fatto di due episodi uno, inserendo personaggi e situazioni del secondo in un'ambientazione attribuibile al primo, e ormai se si dovesse fare un giochetto come quello iniziale del quiz L'Eredità, in cui io vi dicessi un personaggio a caso e voi doveste collocarlo nell'uno o nell'altro, non so proprio come ve la cavereste. Poco male, sono un po' confusa anch'io di tanto in tanto.
Ebbene, l'ossatura della trama di questo sconosciuto, il secondo volume, è che Alice deve attraversare da un capo all'altro un mondo popolato da strane creature e diviso, a seconda della traduzione, in “scacchi” o “quadretti”: arrivata all'ottavo, cioè all'estremità opposta a quella da dov'era partita, le succederà quel che capita a un pedone che in una partita venga, con termine tecnico, “promosso”, e diventerà regina. Quando ormai il libro è in dirittura d'arrivo, Alice si ritrova in testa una corona che non sa bene come ci sia finita e viene sottoposta a una serie di assurdi test dalle due regine già esistenti, la Rossa e la Bianca, che molti di voi forse si staranno immaginando con i visi della Bonham-Carter e della Hathaway di burtoniana memoria, poi riesce finalmente ad accedere a un banchetto altrettanto bizzarro in cui il cibo è vivo e le viene presentato come se si trattasse di nuove conoscenze, dopodiché non si può più mangiare, perché non sta bene tagliare e ingurgitare un nuovo amico, proprio no! E così succedono scenette di questo tipo:
Mi sembri un po' timida: lascia che ti presenti a quel cosciotto di montone, ― disse la Regina Rossa. ― Alice-Montone-Montone-Alice. ― Il cosciotto di montone si alzò in piedi nel piatto e fece un piccolo inchino ad Alice; e Alice ricambiò l'inchino, non sapendo se doveva essere spaventata o divertita.
Ora, non aspettatevi che la ricetta di oggi sia tanto attenta al galateo: probabilmente se ne starà lì a farsi mangiare come succede su qualsiasi sensata tavola del nostro noioso mondo. Tuttavia parliamo proprio del cosciotto di montone, la cui procedura ho di nuovo dovuto tradurre con le mie manine d'oro, per cui sapete da chi andare con torce e forconi se vi rovina la cena. Eccolo qui:

Cosciotto di montone con salsa di capperi

Ingredienti
Per il montone
1 cosciotto di montone
sale e pepe nero macinato di fresco
200 g di burro
3 grosse cipolle tagliate a fette
1 rametto di rosmarino fresco
3 foglie d'alloro
10 grani di pepe nero
750 ml di vino bianco
600 ml di brodo d'agnello

Per la salsa di capperi
300 ml di panna liquida
600 ml di brodo di pollo
1 piccolo vasetto di capperi

Procedura
  1. Preriscaldare il forno a 150°C.
  2. Per il montone, insaporire tutto il cosciotto con sale e pepe nero macinato di fresco. Imburrare l'interno di una casseruola pirofila. Mettere il cosciotto di montone nel piatto e spargervi sopra le cipolle affettate.
  3. Avvolgere il rosmarino, le foglie d'alloro e i grani di pepe in un pezzetto di mussola e farne un pacchettino con un pezzo di spago da cucina. Metterlo nella casseruola.
  4. Versare il vino bianco e il brodo d'agnello. Imburrare un foglio di carta oleata grande abbastanza da coprire la casseruola e metterlo sopra il montone, infilandovi sotto i bordi.
  5. Mettere in forno per 3 ore, o fino a quando il montone è tanto tenero da sciogliersi.
  6. Nel frattempo, per la salsa di capperi, cuocere a fuoco lento il brodo di pollo in un pentolino finché si riduce della metà in volume. Aggiungere mescolando la panna e i capperi e cuocere a fuoco lento per 2-3 minuti, poi insaporire a piacere con sale e pepe nero macinato di fresco. Mettere da parte.
  7. Togliere il montone dal forno. Mettere le cipolle cotte su un grosso piatto da portata con una schiumarola. Tagliare il cosciotto a fette spesse e adagiarle sulle cipolle. Mettervi sopra col cucchiaio la salsa di capperi calda e servire immediatamente.

Rémy: Ma i capperi nel libro non ci sono!
No, infatti, ma del cosciotto si trovano tante versioni con condimenti diversi, molte delle quali si vantano di essere italianissime. Io ho scelto questa, nonostante non si nomini la salsa di capperi, perché nessuna di esse mi sembrava adatta per riprodurre l'atmosfera di un classico della letteratura inglese: la mia fonte, che non potrebbe essere più britannica di così, mi assicura che si tratti di un piatto che Sua Maestà in persona approverebbe. Se non lo sa la BBC...

venerdì 28 marzo 2014

Sgranocchiando popcorn: "Saving Mr. Banks"

La donna dietro Mary Poppins

Cari lettori, quest'oggi ci armiamo di nuovo di popcorn, ma forse uno snack salato non è la migliore delle idee, perché tutto quel che seguirà andrà preso con “un poco di zucchero”.
Capita la citazione? Ebbene sì, il film che metteremo, è proprio il caso di dirlo, sotto i riflettori è la pellicola del 2013 Saving Mr. Banks, per la regia di John Lee Hancock, che con la scusa di mostrarci le mille (e poco note) peripezie nascoste dietro la produzione della celeberrima versione Disney di Mary Poppins, quella con Julie Andrews nel ruolo della protagonista e le canzonette orecchiabili che tutti certamente abbiamo in testa, traccia a spizzichi e bocconi una toccante biografia dell'autrice dei libri originali, Pamela Lyndon Travers, all'anagrafe Helen Goff (portata sullo schermo da Emma Thompson da adulta e Annie Rose Buckley nelle scene che la mostrano bambina). 

E già la questione del nome ne solleva molte altre: la nostra eroina si configura da subito come una personcina precisa fino alla patologia e testarda fin quasi al ridicolo, piena di piccole e inspiegabili idiosincrasie. È, e deve essere, “la signora Travers” per tutti: non si lascia chiamare per nome nemmeno dall'agente che conosce da sempre, figurarsi da un insistente Walt Disney (Tom Hanks) che da vent'anni la contatta senza sosta per convincerla a firmare il contratto di cessione dei diritti del suo amatissimo libro per l'infanzia. È estremamente riluttante a lasciare una Londra a cui è evidentemente molto legata, ma che non è neppure la sua terra d'origine, dato che di nascita è australiana, per andare a discutere del copione in California, e quando finalmente si convince a partire, le sue richieste la fanno diventare l'incubo di tutti, dalla hostess all'autista, dalla segretaria ai fratelli Sherman, compositori delle famose canzoni. L'impatto con l'America è uno shock per tutte le persone coinvolte, spettatori inclusi: se loro trovano lei insopportabile, lei è disgustata dalla loro espansività e confidenza che interpreta come maleducazione, e noi che guardiamo siamo colpiti dall'improvviso cambio di marcia della colonna sonora come da uno schiaffo in pieno viso, in quanto il brano che parte nel preciso istante dell'atterraggio a Los Angeles, rispetto ai toni tranquilli della musica londinese, è di un'allegria sfacciata.
Una nota passeggera: c'è chi, nel modo di Disney di toccare la Travers a ogni occasione (non fatevi strane idee, parlo di strette di mano più vigorose del necessario e pacche sulle spalle non richieste, non di più) e di continuare imperterrito a chiamarla Pam nonostante tutto, ha visto un flirt. Io non sono d'accordo: non è altro che un trucco per contrapporre lo stereotipo dell'americano amicone a quello dell'inglese formale fino all'estremo, in modo non dissimile da quello di A Royal Weekend, sequel ideale de Il discorso del re, in cui Roosevelt trattava Giorgio VI quasi come un compagno di merende. In quello, che io sappia, nessuno ha visto un flirt omosessuale, o sbaglio?
Tra le pretese della nostra autrice, in nessun ordine particolare: niente pere nel cestino di frutta di benvenuto in albergo (finiranno defenestrate tra la perplessità generale dei clienti che le vedono cadere in piscina), un totale stravolgimento degli schizzi iniziali di casa Banks, che deve avere esattamente l'aspetto della sua, un look pulito e sbarbato per il padre dei bambini che invece Disney aveva voluto coi baffi, solo attori reali senza alcuna sequenza animata, completa eliminazione del colore rosso dal film (immaginatevi le obiezioni: come si fa a togliere il rosso da una storia ambientata in un Paese dalla bandiera bianca, rossa e blu?) e soprattutto, con sommo sconforto dei due fratelli musicisti, niente canzoni. Peraltro, pollice in giù per il trucco e parrucco della Thompson in questo frangente: se i costumi e tutto il resto dell'apparato estetico erano stati finora ineccepibili, avrebbero potuto almeno evitare la contraddizione del farle dire cose come «Mi trovo improvvisamente “anti-rosso”» e «Non lo indosserò mai più» per poi metterle sulle labbra rossetti più scarlatti di un semaforo e un evidentissimo strato di smalto rosso ai piedi. Oh, be', perlomeno lo scivolone è compensato dal puro valore comico dell'imbarazzo provato da uno dei due Sherman, che nel giorno della sua requisitoria contro il colore ha sfortunatamente messo un gilet che più rosso non si può.
Un personaggino strano, nevvero? E in particolare – viene da chiedersi durante la visione – come diamine è possibile che il film sia stato prodotto così come lo conosciamo se lei continua a depennare in tronco idee che lo spettatore medio sa che invece furono poi incluse?
Nella parte iniziale la Thompson è davvero brava a indossare i panni della zitella acida: dapprima ti colpisce con un'inquadratura che è un vero pugno allo stomaco, la primissima, in cui il suo sguardo fisso sembra letteralmente bucare lo schermo per raggiungere l'osservatore (non oso pensare all'effetto che mi avrebbe fatto in 3D), e poi si trasforma in un'autentica macchinetta che non sa far altro che dire no, no e no. No, non chiamiamoci tutti per nome come si fa normalmente negli studi Disney, io sono la signora Travers! No, la scena dei pinguini danzanti non s'ha da fare! No, niente parole inventate nelle canzoni, se proprio si deve cantare! Esatto, questo significa bocciatura senza appello anche per Supercalifragilistichespiralidoso. Brutto colpo, eh?
Eppure tutte queste cose nel film ci sono. Le infinite controversie in sala prove lasciano un senso di profonda confusione: per quanto ci s'impegni a cercare di intuire la continuazione, sembra proprio impossibile che una così rigida faccia un tale cambiamento e trasformi tutti i suoi no in sì.
Tuttavia, man mano che lo sfiancante lavoro con la squadra Disney fa riaffiorare i suoi ricordi, si comincia a provare più empatia per questa donna monolitica dalla penna rossa troppo facile, perché diventa via via più chiaro che ogni sua stranezza trova una ragion d'essere nella sua non facile infanzia: si vede scivolare di mano un padre (Travers Goff, l'origine del suo pseudonimo, interpretato da Colin Farrell) dolce, divertente e pieno d'amore con cui la vita al di fuori delle mura domestiche non è stata affatto gentile, che diventa sempre più preda dell'alcol fino a morirne lasciando la conduzione familiare in mano a una moglie troppo debole per occuparsene. Nell'impossibilità di cavarsela da sola, la madre di Helen chiede aiuto alla sorella Ellie, che quando si presenta sull'uscio di casa è identica alla tata: stesso ombrello, stesso abito, stessa borsa impossibile da cui estrae qualunque cosa, dalle medicine ai fiori freschi in vaso, da una tazza da tè con piattino senza la benché minima crepa a un ananas intero il cui ciuffo di foglie non si è neppure piegato un po', e tutto questo presumibilmente dopo un lungo viaggio tra treni e carrozze dall'ammortizzazione non proprio eccelsa.
Non è chiaro quanto di tutto questo sia reale e quanto sia una distorsione portata dal tempo che passa: allo stesso modo, qualche scena prima, una delle canzoni degli Sherman si era fusa nella sua mente con un disastroso discorso tenuto dal padre a una fiera locale.
Non solo ogni sua mania personale è legata a un preciso trauma di quel difficile periodo, ma anche ogni personaggio del suo capolavoro, dunque, ha uno o più omologhi reali. L'impressione che se ne ricava è che Mary Poppins, che nell'opera originale è molto più severa di Julie Andrews, altro non sia che una fusione tra la zia e il lato migliore del padre, mentre il freddo e distante Mr. Banks sia l'incarnazione del peggiore: in questo senso il film s'intitola Saving Mr. Banks. L'incomprensione di fondo tra Disney e la Travers sta nell'interpretazione della storia: lui, che voleva farne una commedia brillante, è inizialmente convinto che lo scopo unico della tata sia di salvare i bambini, mentre lei, che aveva cominciato a scriverla da adolescente per alleviare il dolore dei suoi fratelli per poi pubblicarla a distanza di anni, sa che quello che ha bisogno di essere salvato è il padre, che avrebbe voluto veder tornare com'era prima di divenire schiavo del bere.
Ci vorrà un fior di inseguimento, con lei che prende il volo di ritorno senza firmare la cessione e lui che prenota in extremis un posto sul successivo, e una toccante scena a cuore aperto in cui Disney, che non sa i dettagli ma ha intuito abbastanza, le confessa le brutture della sua fanciullezza altrettanto dolorosa, per convincerla a siglare il sospirato contratto, ma alla fine la cittadella chiamata Pamela Lyndon Travers crollerà sotto l'assedio dell'esercito nemico e, in una conclusione che più disneyana di così si muore, abbigliata in un bianco e azzurro che chissà perché fa tanto Cenerentola, la nostra eroina andrà alla prima di Los Angeles come fosse un gran ballo, scortata in sala da un servizievole figurante col costume da Topolino.
Fin troppo disneyana, forse: avrei apprezzato di più se nel corso del film si fosse nominata anche qualche idea che poi fosse stata effettivamente tolta dal prodotto finale, invece di concentrarsi tanto solo su quelle accettate. Capisco l'affetto: fa sorridere il pensiero che concetti, personaggi e motivi a cui tutti siamo abituati abbiano rischiato grosso prima di essere approvati. Così facendo, però, si fa apparire il cedimento della Travers come una resa totale invece di un più dignitoso compromesso, facendone vacillare l'immagine accuratamente costruita di donna forte in favore di una soluzione “salvatutti” da cartone animato, appunto, in cui il cattivo ha una conversione quasi magica, troppo integrale per essere credibile, e si unisce cantando e saltellando alla schiera dei buoni. Uno strano trattamento, dato che l'unico vero cattivo della situazione si trovava semmai sul fondo di una bottiglia di whisky.
Valutazione complessiva: