lunedì 10 marzo 2014

Educazione ieri e oggi

Ovvero: siamo sicuri che la maestra abbia sempre ragione?

Un saluto a tutti i miei lettori.
Lasciate innanzitutto che vi confessi la mia emozione nello scrivere queste righe: da qui in poi si entra nel vivo dell'esperienza della mia biblioteca immaginaria. Prendete questo post, se volete, col valore dei primi passi incerti di un bimbo: non ci sarà da aspettarsi Usain Bolt quanto piuttosto una serie spettacolare di cadute sul sederino, ma sono importanti.
E proprio di bambini e ragazzi vi vorrei parlare, ma già un po' più grandicelli, di quelli a cui si mette finalmente uno zainetto sulle spalle per mandarli a scuola.
Sento spesso persone a me più o meno vicine ripetere che la scuola in Italia va a rotoli, che i metodi sono cambiati in peggio, che una volta (ma è un “una volta” come quello delle favole, forse, che non si sa mai bene a che epoca si riferisca?) s'imparava in modo diverso, magari anche meno, ma in compenso meglio, mentre oggi accumulare tante materie e tanti concetti nei poveri cervelli dei più piccoli fin da subito ne danneggia la comprensione e produce generazioni d'asini. Su questo ho poco da dire, se non che questa visione, a mio parere, è un tantino estremizzata: alunni che capiscono e che non capiscono, che s'impegnano e che non s'impegnano, ci sono e ci sono sempre stati, e anche se qualcuno di voi sarà in grado di provarmi, statistiche alla mano, che oggi si sa meno che in passato, questa immagine idilliaca di una classe guidata da una maestra perfetta in cui tutti afferravano benissimo tutto mi sembra un po' improbabile.
Con questo, peraltro, raggiungiamo un altro punto da affrontare: noterete che ho scritto “una maestra” (mi perdonerete per la scelta del femminile: mi è inevitabile, parlando di un tempo in cui il mestiere era di fatto affidato prevalentemente alle donne).
Non mi soffermerò sui limiti e sui meriti di una maestra sola versus più insegnanti, tema che potrei affrontare con sicurezza solo se avessi conoscenze di psicologia e pedagogia che al momento non mi vergogno di ammettere che mi mancano, ma credo che qui s'incastri alla perfezione una breve parentesi personale: in virtù degli anni in cui ho frequentato le elementari, credo di aver vissuto una parte del meglio e del peggio di entrambi i mondi.
Il passaggio, correggetemi se sbaglio, si cominciò a prospettare negli anni Ottanta per poi divenire effettivo con una legge del 1990, pertanto, al momento di iniziare, l'idea che a scuola le maestre fossero più di una mi risultava già normale; tuttavia, se osserviamo l'età e il numero di anni di servizio della maggior parte delle docenti della mia classe, bastano quegli stessi calcoli basilari che ho imparato da loro per scoprire che prima di essere integrate nel nuovo sistema dovevano essere state maestre uniche per diverso tempo, e col senno di poi trovo che ciò si riflettesse moltissimo nel loro approccio, che potremmo definire “vecchio stile”.
E qui di nuovo si tocca un tasto assai delicato, che esula in parte dai confini dell'aula scolastica per andare a invadere anche le mura di casa, coinvolgendo oltre agli insegnanti i genitori.

Questa vignetta riassume benissimo un punto di vista che ho sentito esprimere da ogni parte: che non c'è più rispetto, che i famigerati “giovani d'oggi” pensano che tutto sia loro dovuto e non riconoscono più le figure autorevoli, che i genitori li difendono troppo e i docenti, per parte loro, si lasciano mettere i piedi in testa.
Ora, questo può anche risultare in tutto o in parte vero se confrontiamo per esempio, come dice l'immagine, il modello educativo del 1969 con quello del 2009, ma non pensate che sia necessario scavare un po' più in profondità prima di puntare il dito? In un mondo in cui i cambiamenti sono sempre più veloci, quarant'anni sono tanti, e dico quaranta solo in quanto ho davanti le date proposte dal fumetto, perché basta parlare con qualche nonno o nonna per andare ancora più indietro: non può essere, per caso, che questo rispetto di cui si piange la scomparsa non sia in realtà morto, ma abbia assunto forme diverse?
A proposito di nonni, lasciate che vi spieghi meglio quest'ultima affermazione aiutandomi con una frase tipica che alla mia doveva sembrare perfettamente normale, ma che ricordo che alla mia mente di bambina cresciuta in modo già diverso dal suo pareva incomprensibile. Quando mi arrabbiavo con lei o facevo i capricci, le sue risposte erano invariabilmente su uno di questi due toni:
a) «Non essere superba!»
b) «Non rispondere!»
Sulla prima espressione potrei dilungarmi all'infinito in un tentativo di analisi del perché e del percome di questa invocazione non del tutto a proposito di uno dei sette peccati capitali, ma quella che m'interessa davvero è la seconda.
Da bambina già “moderna”, rammento con chiarezza sorprendente che quella frase, più che farmi sentire castigata per benino e piena di vergogna per quel che avevo detto o fatto, mi lasciava ogni volta perplessa. Mi chiedevo: “Ma come, non rispondere? Come faccio a spiegarmi se non posso rispondere?”. Ora mi è più chiaro che la nonna probabilmente sottintendeva un “non rispondere in malo modo”, ma per me, che come molti piccoli prendevo le cose alla lettera, “non rispondere” era un perfetto equivalente di “sta' zitta”, e questo mi confondeva e mi bruciava. Io ero pronta a farmi le mie ragioni, magari in modo rispettoso, senza più impuntarmi né strillare ma tentando, per quel che potevo, di argomentare, e mi si negava perfino la possibilità di parlare? Era l'apice dell'ingiustizia, e invece di calmarmi mi faceva solo infuriare di più.
Questo accadeva perché in qualche decennio era cambiato radicalmente il modo di educare i figli, ed era definitivamente sepolto il concetto, certamente sopravvissuto fino all'infanzia di mia nonna, che “i bambini bisogna vederli, ma non sentirli”: un concetto di cui lei era ancora così intrisa da ripetermi automaticamente quel “non rispondere” che avevano intimato a lei e che forse, nel suo caso, pretendeva davvero il silenzio.
Non potrebbe essere, dunque, che la stessa cosa valga anche in altri campi? Che non sia poi così vero che le figure d'autorità non si rispettino più, ma che piuttosto le si rispettino diversamente? Figlia dei miei tempi, io non vedo alcun crimine nel dissentire con qualcosa che mi si dice in classe e proporre in tono educato un'alternativa di cui discutere civilmente, o nel far notare con gentilezza un errore a una persona che in teoria, e probabilmente anche in pratica, ne sa più di me: sbagliare è umano, e se io mi accorgo di quella singola inesattezza e lo dico ad alta voce sto collaborando, non offendendo.
Un bambino dei presunti tempi d'oro non avrebbe mai alzato la manina per dire all'“onnisciente e onnipotente” maestra unica che stava sbagliando: ma è vero rispetto, questo? O non è forse paura, paura di una punizione umiliante, o peggio, dolorosa davanti a tutti i compagni? O di rappresaglie a casa, dove i familiari, al sentirsi raccontare l'episodio, gli avrebbero risposto senza mezzi termini che “la maestra ha sempre ragione” corredando pure le parole con qualche sonoro scappellotto? No, mi dispiace, ma essendo (per fortuna!) il modello seguito dai miei genitori tutta un'altra musica, questo non mi sembra rispetto, mi sembra poco meno di un regime di terrore.
E non erano solo mamma e papà a gonfiare questo famoso rispetto fino a creare nel bambino l'impressione che la maestra fosse realmente onnisciente: penso che fossero le insegnanti stesse ad alimentare il mito, e ho alcuni episodi realmente accaduti a dimostrarlo.
Le mie maestre, che sotto ogni altro aspetto ringrazio e ancora oggi stimo moltissimo, erano, come ho detto, docenti “vecchio stile” che a quanto pare si sentivano ancora in dovere di farci credere di sapere tutto: senza conoscenze specifiche non so dire se questo sia un bene o un male, ma quello che so è che di tanto in tanto, per mascherare i propri inevitabili errori, dovevano prodursi in equilibrismi che allora mi parevano strani e destabilizzanti, e ora francamente ridicoli.
Ci fu una volta in cui una di loro tentò di dare la colpa a noi per uno strafalcione suo, affermando che aveva imparato a farli stando in mezzo a noi che ne commettevamo tanti, come se noi poveri ignoranti avessimo in qualche modo contaminato la sua perfezione. Un'applicazione un po' eccessiva del proverbio “Chi va con lo zoppo impara a zoppicare”, non trovate?
Un'altra volta, quando parecchi leggevano ancora stentatamente, una maestra scrisse una frase scorretta alla lavagna. È probabilissimo che diversi se ne fossero accorti, ma che io ricordi nessuno ne parlò. La compagna interpellata, che non aveva ancora acquisito il grado d'automatismo che oggi fa correggere da sé i refusi al nostro cervello, lesse ad alta voce le parole incriminate con l'errore. In risposta, un autentico urlo: «Leggi quello che c'è scritto!». Come per negare l'esistenza di una svista che in realtà era davanti agli occhi di tutti. Acciderbolina! Ci credeva forse capaci di un'inquietante forma di bipensiero di cui sarebbe stato orgoglioso George Orwell?
E a proposito di capacità di pensiero, ho il sospetto che questa leggenda della maestra onnisciente nasca in parte da una sottovalutazione delle abilità di comprensione del mondo di un bambino in età scolare. Considerate queste due proposizioni:
a) «Devi rispettare la tua maestra perché sa tutto».
b) «Devi rispettare la tua maestra perché sa tante cose».
Umanamente parlando, quale delle due ha più senso? Ce n'è forse una che a un bambino di sei anni risulterebbe impossibile da capire? Io credo sinceramente che si dovrebbe spiegare loro che nessuno può sapere o fare tutto, ma che se si vuole imparare qualcosa di più, stare a sentire la maestra è la strada giusta, perché magari non saprà ogni cosa, però ne sa un bel po'. È così complicato? Davvero i bambini si sentono al sicuro solo se persuasi che l'adulto di riferimento sappia tutto, ma proprio tutto? Non è sufficiente che sappia solo quel che serve? Lo chiedo a voi, magari passerà di qui uno psicologo dell'infanzia in grado di aiutarmi. Nella mia esperienza, raccontare la favoletta dell'onniscienza produce solo risultati come l'episodio che segue, che nonostante fossi all'incirca coetanea dell'altra bambina coinvolta, già allora mi mise un brivido. Non sarà certamente riportato testuali parole, ma lo spirito è lo stesso e vi chiedo gentilmente di accontentarvi.
Come rapidissima premessa, sappiate che nella nostra classe era arrivato da non molto tempo un compagno marocchino che aveva ancora moltissime difficoltà con l'italiano e doveva essere seguito da un'insegnante di sostegno. Costei l'aveva rimproverato aspramente per un errore che non ricordo, magari anche grave, ma comprensibile per uno che avesse appena cominciato a studiare la lingua. Ne parlai con una compagna e la parte del dialogo che rammento si ridusse più o meno a questo:
«Vorrei vedere lei a studiare l'arabo!»
«Ma certo che sa l'arabo! Se è una maestra, sa tutto!»
Ditemi voi se è una visione sana.
Io non ho mai avuto la sensazione di non rispettare le mie maestre solo perché vedevo le lacune e gli errori perfettamente umani che avevo davanti al naso. Forse sono ricordi distorti dal tempo, ma per me è così.
Eppure, ci sono tanti esponenti di una generazione precedente alla mia che si scagliano su una scuola che non insegna né i valori né le nozioni che s'imparavano un tempo, generalizzando allegramente senza tenere in alcun conto i casi singoli, e così mi trovo a lottare contro il muro di pregiudizio di chi vede in me una creaturina ribelle, maleducata e incapace di distinguere un congiuntivo da un condizionale, e tutto ciò solo per un fattore del tutto indipendente dalla mia volontà come il mio anno di nascita. Ho un bel condire i miei discorsi con parole forbite e mille “Scusi” e “Se permette” per correggere quest'impressione, ma temo, nel profondo, che non si cancellerà mai completamente. Sono una “giovane d'oggi”, e pertanto non ho valori, non rispetto nessuno e sono un somaro. Grazie per la stima, davvero.
Non potreste dare una possibilità al tipo di rispetto del Duemila? Sarà diverso, ma esiste ancora. Provateci.

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