Ovvero: siamo sicuri che la maestra abbia sempre ragione?
Un saluto a tutti i miei lettori.
Lasciate innanzitutto che vi confessi la mia emozione nello scrivere
queste righe: da qui in poi si entra nel vivo dell'esperienza della
mia biblioteca immaginaria. Prendete questo post, se volete, col
valore dei primi passi incerti di un bimbo: non ci sarà da
aspettarsi Usain Bolt quanto piuttosto una serie spettacolare di
cadute sul sederino, ma sono importanti.
E proprio di bambini e ragazzi vi vorrei parlare, ma già un po' più
grandicelli, di quelli a cui si mette finalmente uno zainetto sulle
spalle per mandarli a scuola.
Sento spesso persone a me più o meno vicine ripetere che la scuola
in Italia va a rotoli, che i metodi sono cambiati in peggio, che una
volta (ma è un “una volta” come quello delle favole, forse, che
non si sa mai bene a che epoca si riferisca?) s'imparava in modo
diverso, magari anche meno, ma in compenso meglio, mentre oggi
accumulare tante materie e tanti concetti nei poveri cervelli dei più
piccoli fin da subito ne danneggia la comprensione e produce
generazioni d'asini. Su questo ho poco da dire, se non che questa
visione, a mio parere, è un tantino estremizzata: alunni che
capiscono e che non capiscono, che s'impegnano e che non s'impegnano,
ci sono e ci sono sempre stati, e anche se qualcuno di voi sarà in
grado di provarmi, statistiche alla mano, che oggi si sa meno che in
passato, questa immagine idilliaca di una classe guidata da una
maestra perfetta in cui tutti afferravano benissimo tutto mi sembra
un po' improbabile.
Con
questo, peraltro, raggiungiamo un altro punto da affrontare: noterete
che ho scritto “una
maestra” (mi perdonerete per la scelta del femminile: mi è
inevitabile, parlando di un tempo in cui il mestiere era di fatto
affidato prevalentemente alle donne).
Non
mi soffermerò sui limiti e sui meriti di una maestra sola versus
più insegnanti, tema che potrei affrontare con sicurezza solo se
avessi conoscenze di psicologia e pedagogia che al momento non mi
vergogno di ammettere che mi mancano, ma credo che qui s'incastri
alla perfezione una breve parentesi personale: in virtù degli anni
in cui ho frequentato le elementari, credo di aver vissuto una parte
del meglio e del peggio di entrambi i mondi.
Il passaggio, correggetemi se sbaglio, si cominciò a prospettare
negli anni Ottanta per poi divenire effettivo con una legge del 1990,
pertanto, al momento di iniziare, l'idea che a scuola le maestre
fossero più di una mi risultava già normale; tuttavia, se
osserviamo l'età e il numero di anni di servizio della maggior parte
delle docenti della mia classe, bastano quegli stessi calcoli
basilari che ho imparato da loro per scoprire che prima di essere
integrate nel nuovo sistema dovevano essere state maestre uniche per
diverso tempo, e col senno di poi trovo che ciò si riflettesse
moltissimo nel loro approccio, che potremmo definire “vecchio
stile”.
E qui di nuovo si tocca un tasto assai delicato, che esula in parte
dai confini dell'aula scolastica per andare a invadere anche le mura
di casa, coinvolgendo oltre agli insegnanti i genitori.
Questa vignetta riassume benissimo un punto di vista che ho sentito
esprimere da ogni parte: che non c'è più rispetto, che i famigerati
“giovani d'oggi” pensano che tutto sia loro dovuto e non
riconoscono più le figure autorevoli, che i genitori li difendono
troppo e i docenti, per parte loro, si lasciano mettere i piedi in
testa.
Ora, questo può anche risultare in tutto o in parte vero se
confrontiamo per esempio, come dice l'immagine, il modello educativo
del 1969 con quello del 2009, ma non pensate che sia necessario
scavare un po' più in profondità prima di puntare il dito? In un
mondo in cui i cambiamenti sono sempre più veloci, quarant'anni sono
tanti, e dico quaranta solo in quanto ho davanti le date proposte dal
fumetto, perché basta parlare con qualche nonno o nonna per andare
ancora più indietro: non può essere, per caso, che questo rispetto
di cui si piange la scomparsa non sia in realtà morto, ma abbia
assunto forme diverse?
A proposito di nonni, lasciate che vi spieghi meglio quest'ultima affermazione aiutandomi con una frase tipica che alla mia doveva sembrare perfettamente normale, ma che ricordo che alla mia mente di bambina cresciuta in modo già diverso dal suo pareva incomprensibile. Quando mi arrabbiavo con lei o facevo i capricci, le sue risposte erano invariabilmente su uno di questi due toni:
A proposito di nonni, lasciate che vi spieghi meglio quest'ultima affermazione aiutandomi con una frase tipica che alla mia doveva sembrare perfettamente normale, ma che ricordo che alla mia mente di bambina cresciuta in modo già diverso dal suo pareva incomprensibile. Quando mi arrabbiavo con lei o facevo i capricci, le sue risposte erano invariabilmente su uno di questi due toni:
a)
«Non
essere superba!»
b) «Non rispondere!»
Sulla prima espressione potrei
dilungarmi all'infinito in un tentativo di analisi del perché e del
percome di questa invocazione non del tutto a proposito di uno dei
sette peccati capitali, ma quella che m'interessa davvero è la
seconda.
Da
bambina già “moderna”, rammento con chiarezza sorprendente che
quella frase, più che farmi sentire castigata per benino e piena di
vergogna per quel che avevo detto o fatto, mi lasciava ogni volta
perplessa. Mi chiedevo: “Ma come, non
rispondere?
Come faccio a spiegarmi se non posso rispondere?”. Ora mi è più
chiaro che la nonna probabilmente sottintendeva un “non rispondere
in
malo modo”,
ma per me, che come molti piccoli prendevo le cose alla lettera, “non
rispondere” era un perfetto equivalente di “sta' zitta”, e
questo mi confondeva e mi bruciava. Io ero pronta a farmi le mie
ragioni, magari in modo rispettoso, senza più impuntarmi né
strillare ma tentando, per quel che potevo, di argomentare, e mi si
negava perfino la possibilità di parlare? Era l'apice
dell'ingiustizia, e invece di calmarmi mi faceva solo infuriare di
più.
Questo accadeva perché in
qualche decennio era cambiato radicalmente il modo di educare i
figli, ed era definitivamente sepolto il concetto, certamente
sopravvissuto fino all'infanzia di mia nonna, che “i bambini
bisogna vederli, ma non sentirli”: un concetto di cui lei era
ancora così intrisa da ripetermi automaticamente quel “non
rispondere” che avevano intimato a lei e che forse, nel suo caso,
pretendeva davvero il silenzio.
Non
potrebbe essere, dunque, che la stessa cosa valga anche in altri
campi? Che non sia poi così vero che le figure d'autorità non si
rispettino più, ma che piuttosto le si rispettino diversamente?
Figlia dei miei tempi, io non vedo alcun crimine nel dissentire con
qualcosa che mi si dice in classe e proporre in tono educato
un'alternativa di cui discutere civilmente, o nel far notare con
gentilezza un errore a una persona che in teoria, e probabilmente
anche in pratica, ne sa più di me: sbagliare è umano, e se io mi
accorgo di quella singola inesattezza e lo dico ad alta voce sto
collaborando, non offendendo.
Un bambino dei presunti tempi
d'oro non avrebbe mai alzato la manina per dire all'“onnisciente e
onnipotente” maestra unica che stava sbagliando: ma è vero
rispetto, questo? O non è forse paura, paura di una punizione
umiliante, o peggio, dolorosa davanti a tutti i compagni? O di
rappresaglie a casa, dove i familiari, al sentirsi raccontare
l'episodio, gli avrebbero risposto senza mezzi termini che “la
maestra ha sempre ragione” corredando pure le parole con qualche
sonoro scappellotto? No, mi dispiace, ma essendo (per fortuna!) il
modello seguito dai miei genitori tutta un'altra musica, questo non
mi sembra rispetto, mi sembra poco meno di un regime di terrore.
E non erano solo mamma e papà a
gonfiare questo famoso rispetto fino a creare nel bambino
l'impressione che la maestra fosse realmente onnisciente: penso che
fossero le insegnanti stesse ad alimentare il mito, e ho alcuni
episodi realmente accaduti a dimostrarlo.
Le mie maestre, che sotto ogni
altro aspetto ringrazio e ancora oggi stimo moltissimo, erano, come
ho detto, docenti “vecchio stile” che a quanto pare si sentivano
ancora in dovere di farci credere di sapere tutto: senza conoscenze
specifiche non so dire se questo sia un bene o un male, ma quello che
so è che di tanto in tanto, per mascherare i propri inevitabili
errori, dovevano prodursi in equilibrismi che allora mi parevano
strani e destabilizzanti, e ora francamente ridicoli.
Ci fu una volta in cui una di
loro tentò di dare la colpa a noi per uno strafalcione suo,
affermando che aveva imparato a farli stando in mezzo a noi che ne
commettevamo tanti, come se noi poveri ignoranti avessimo in qualche
modo contaminato la sua perfezione. Un'applicazione un po' eccessiva
del proverbio “Chi va con lo zoppo impara a zoppicare”, non
trovate?
Un'altra volta, quando parecchi
leggevano ancora stentatamente, una maestra scrisse una frase
scorretta alla lavagna. È
probabilissimo che diversi se ne fossero accorti, ma che io ricordi
nessuno ne parlò. La compagna interpellata, che non aveva ancora
acquisito il grado d'automatismo che oggi fa correggere da sé i
refusi al nostro cervello, lesse ad alta voce le parole incriminate
con l'errore. In risposta, un autentico urlo: «Leggi quello che c'è
scritto!». Come per negare l'esistenza di una svista che in realtà
era davanti agli occhi di tutti. Acciderbolina! Ci credeva forse
capaci di un'inquietante forma di bipensiero di cui sarebbe stato
orgoglioso George Orwell?
E a proposito di capacità di
pensiero, ho il sospetto che questa leggenda della maestra
onnisciente nasca in parte da una sottovalutazione delle abilità di
comprensione del mondo di un bambino in età scolare. Considerate
queste due proposizioni:
a)
«Devi rispettare la tua maestra perché sa
tutto».
b)
«Devi rispettare la tua maestra perché sa
tante cose».
Umanamente parlando, quale delle
due ha più senso? Ce n'è forse una che a un bambino di sei anni
risulterebbe impossibile da capire? Io credo sinceramente che si
dovrebbe spiegare loro che nessuno può sapere o fare tutto, ma che
se si vuole imparare qualcosa di più, stare a sentire la maestra è
la strada giusta, perché magari non saprà ogni cosa, però ne sa un
bel po'. È così complicato? Davvero i bambini si sentono al sicuro
solo se persuasi che l'adulto di riferimento sappia tutto, ma proprio
tutto? Non è sufficiente che sappia solo quel che serve? Lo chiedo a
voi, magari passerà di qui uno psicologo dell'infanzia in grado di
aiutarmi. Nella mia esperienza, raccontare la favoletta
dell'onniscienza produce solo risultati come l'episodio che segue,
che nonostante fossi all'incirca coetanea dell'altra bambina
coinvolta, già allora mi mise un brivido. Non sarà certamente
riportato testuali parole, ma lo spirito è lo stesso e vi chiedo
gentilmente di accontentarvi.
Come rapidissima premessa,
sappiate che nella nostra classe era arrivato da non molto tempo un
compagno marocchino che aveva ancora moltissime difficoltà con
l'italiano e doveva essere seguito da un'insegnante di sostegno.
Costei l'aveva rimproverato aspramente per un errore che non ricordo,
magari anche grave, ma comprensibile per uno che avesse appena
cominciato a studiare la lingua. Ne parlai con una compagna e la
parte del dialogo che rammento si ridusse più o meno a questo:
«Vorrei vedere lei a studiare
l'arabo!»
«Ma certo che sa l'arabo! Se è
una maestra, sa tutto!»
Ditemi voi se è una visione
sana.
Io non ho mai avuto la sensazione
di non rispettare le mie maestre solo perché vedevo le lacune e gli
errori perfettamente umani che avevo davanti al naso. Forse sono
ricordi distorti dal tempo, ma per me è così.
Eppure, ci sono tanti esponenti
di una generazione precedente alla mia che si scagliano su una scuola
che non insegna né i valori né le nozioni che s'imparavano un
tempo, generalizzando allegramente senza tenere in alcun conto i casi
singoli, e così mi trovo a lottare contro il muro di pregiudizio di chi vede in me una creaturina ribelle, maleducata e
incapace di distinguere un congiuntivo da un condizionale, e tutto
ciò solo per un fattore del tutto indipendente dalla mia volontà
come il mio anno di nascita. Ho un bel condire i miei discorsi con
parole forbite e mille “Scusi” e “Se permette” per correggere
quest'impressione, ma temo, nel profondo, che non si cancellerà mai
completamente. Sono una “giovane d'oggi”, e pertanto non ho
valori, non rispetto nessuno e sono un somaro. Grazie per la stima,
davvero.
Non potreste dare una possibilità
al tipo di rispetto del Duemila? Sarà diverso,
ma esiste ancora. Provateci.
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