venerdì 17 febbraio 2017

Donne, du du du...



Ovvero: istruzione e stereotipi di genere


Salve a tutti!

Sì, questo blog esiste ancora, quale inaspettata rivelazione. Lo so, sparisco sempre e torno solo ogni tanto con qualche dubbio guizzo d’ispirazione, ma spero che possiate accontentarvi e apprezzare lo stesso quanto segue.

Oggi vorrei dire la mia su un argomento di quelli delicati, di cui si parla all’infinito e sembra di non dire mai abbastanza: i tanto vituperati stereotipi di genere che, a sentire una certa corrente, danneggiano le future prospettive di carriera delle ragazze fin dall’infanzia.



Perdonate l’inglese imperante: credo che il messaggio passerebbe pure in aramaico, e comunque non è mai una cattiva idea fare un po’ di esercizio!

Le statistiche citate dagli innumerevoli articoli e video a tema come questo possono cambiare un po’ a seconda di com’è stato fatto il calcolo, ma il cuore dell’argomentazione è sempre il medesimo: da una certa età in poi, molto prima di quanto ci si renda conto, le bambine perdono interesse per i campi cosiddetti STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) perché convinte di essere meno intelligenti dei maschi, o comunque meno portate per le discipline scientifiche.

Ora, io non voglio affermare né che sia vero né che sia falso in generale. Voglio solo permettermi di raccontare com’è stato per me, per giungere alla conclusione che forse, ma proprio forse, queste femministe inalberate, per quanto animate dalle migliori intenzioni, affrontino la questione in maniera non dico sbagliata, ma almeno un po’ incompleta.

Partiamo dalle basi: a me nessuno ha mai detto in faccia che le femmine, o la sottoscritta in quanto femmina, fossero meno intelligenti dei maschi o per natura meno inclini alle scienze dure. Di fatto, un periodo della mia vita in cui ero brava in matematica c’è stato, ed è durato all’incirca fino alla quarta elementare. Lo ricordo come un passaggio fondamentale: la maestra che ci insegnò a far di conto fino alla quarta e che tutti adoravamo per la sua dolcezza e i suoi metodi divertenti e coinvolgenti andò in pensione senza riuscire a portarci fino in quinta e fu sostituita da un’altra, che col senno di poi probabilmente era ingiusto giudicare male come la vedevo allora, ma che ci confuse tutti quanti. Con lei mi pareva di non essere più capace di fare cose che fino all’anno prima mi riuscivano benissimo, e cominciai ad aver paura della matematica. Ho sudato sui numeri da allora, a prescindere dai diversi insegnanti avuti, ciascuno con i propri modi e le proprie pretese. Ma nemmeno lei favoriva in alcun modo i maschi: eravamo spiazzati tutti.

In compenso, e qui sta il bello, capii che mi piaceva scrivere. Mi era sempre piaciuto, a dirla tutta, ma fino alla quarta forse non avevo una singola materia preferita. Magari avrei addirittura risposto “matematica” alla fatidica domanda, perché quando facevo i compitini per la maestra tanto buona e simpatica mi divertivo di più, ma per essere onesti non avevo ancora capito da che parte tendessero le mie inclinazioni naturali. Mi piaceva imparare, punto. Tutto. In quinta, con la delusione della nuova insegnante, mi buttai sul lato opposto anima e corpo e scoprii che, ohibò, scrivere era proprio una gran bella cosa che non mi faceva venire altrettanto mal di stomaco! Ed eccomi qua a scrivere per voi. Quel fatidico cambio è stata una delle esperienze più formative della mia vita, se vogliamo essere sinceri.

Però, però… capite cosa vuol dire essere una giovane donna che studia materie umanistiche e trovarsi davanti al naso analisi come quella riportata sopra? Fa venire dubbi infiniti. Fa star male. Almeno in parte, in quello stereotipo mi devo riconoscere: anch’io sono una femmina che ha perso interesse per le materie STEM durante l’infanzia, poco importa che la causa della perdita d’interesse, per come la percepisco io, sia ben diversa da quella indicata. E se stessi dando la colpa alla maestra erroneamente? E se avessi subito questo apparente lavaggio del cervello senza rendermene conto? E se fossi stata destinata a una brillante carriera che avrebbe messo in ombra pure Margaret Hamilton? E se, e se, e se…?

Ma come si suol dire, “con i se e con i ma la storia non si fa”. È successo quel che è successo, io ora studio materie umanistiche, mi piace farlo, e grazie tante. Non lo faccio perché credo che le donne non siano tagliate per fare le scienziate, ma perché credo che questa donna che sta scrivendo questo post abbia tutto il diritto di questo mondo di prendere un’altra strada per sincero interesse.

Alle femministe arrabbiate vorrei dire, alla fin fine, soltanto questo: noi studentesse non STEM, felici e per nulla limitate dalla nostra scelta, esistiamo. Se vedete una donna che sceglie Lettere o Filosofia, provate almeno a non presumere che l’abbia fatto perché persuasa dal padre, dai fratelli o dagli insegnanti (magari maschi) di non poter fare altro. Io trovo parte della radice di quel che sono ora in due insegnanti donne, addirittura, sicuramente entrambe valide, ma di cui una mi piaceva e l’altra no. Il sesso non ha niente a che fare con la loro bravura.

Non ho intenzione di negare che esista un marketing separato per genere nel vestiario e nei giocattoli, con l’azzurro da una parte e il rosa dall’altra e i giochi “da femmine” che a quanto pare ci vogliono tutte o casalinghe disperate o bellissime principesse, come se gli unici due modelli disponibili fossero le due opposte versioni di Cenerentola, mentre quelli “da maschi” propongono un ideale o di uomo d’azione stile supereroe o di intelligentissimo scienziato, col Piccolo Chimico e similari. Sarebbe da stupidi. Vedo benissimo che è così.

Ma non ho intenzione di permettere che un’invasione di video e articoli sull’argomento, per quanto veritieri, mettano in dubbio la validità del modo in cui sono stata cresciuta. Sentir dire, generalizzando a volontà, che le bambine vengono educate in funzione di stereotipi femminili limitanti e dannosi, è molto semplicemente un insulto ai miei genitori che non intendo sopportare. Non è così per tutte, alla faccia dei vari hashtag #YesAllWomen che impazzano sulle pagine delle femministe irriducibili.

Sì, ho avuto una cucina giocattolo.

Sì, ho avuto un’infinità di Barbie.

Sì, guardavo i film Disney in cui le principesse erano buone solo a cantare canzoncine e farsi salvare dal principe di turno.

Ma da piccola mi scambiavano per un maschio per via dei capelli corti.

Ho avuto il mio bravo set per gli “esperimenti scientifici” e, anche senza quello, riuscivo a fare infiniti pasticci nella cucina della nonna dopo aver guardato con gran piacere l’ultimo episodio de Il laboratorio di Dexter. E odiavo la sorellina scema.

Oltre al desiderio infantile di essere una principessa, ho avuto periodi di fissazioni decisamente “maschili”, se vogliamo dar retta ai compartimenti stagni, come le gerarchie dell’esercito e lo spionaggio alla James Bond.

Sì, vestivo e rivestivo le mie bambole e inventavo storie su storie. Ma le mie compagne di plastica erano impegnate anche in attività molto meno fashion, tra cui i tuffi acrobatici alla Tania Cagnotto e improbabili acrobazie circensi appese al filo del telefono.

A sentire mia madre adoravo Biancaneve e Cenerentola, ma quel che ricordo io è di aver corso per tutta la casa usando l’asta della nostra bandiera italiana come il lungo bastone con cui si allenava Mulan. Sapevo benissimo che a volte la principessa si salva da sola.

Questo non sembra proprio il profilo di una futura donna limitata dagli stereotipi di genere, o sbaglio?
Eppure eccomi qua. Studio Filologia, scrivo, se vedo un’equazione a distanza di dieci metri scappo. Uno stereotipo vivente. O no?