venerdì 17 febbraio 2017

Donne, du du du...



Ovvero: istruzione e stereotipi di genere


Salve a tutti!

Sì, questo blog esiste ancora, quale inaspettata rivelazione. Lo so, sparisco sempre e torno solo ogni tanto con qualche dubbio guizzo d’ispirazione, ma spero che possiate accontentarvi e apprezzare lo stesso quanto segue.

Oggi vorrei dire la mia su un argomento di quelli delicati, di cui si parla all’infinito e sembra di non dire mai abbastanza: i tanto vituperati stereotipi di genere che, a sentire una certa corrente, danneggiano le future prospettive di carriera delle ragazze fin dall’infanzia.



Perdonate l’inglese imperante: credo che il messaggio passerebbe pure in aramaico, e comunque non è mai una cattiva idea fare un po’ di esercizio!

Le statistiche citate dagli innumerevoli articoli e video a tema come questo possono cambiare un po’ a seconda di com’è stato fatto il calcolo, ma il cuore dell’argomentazione è sempre il medesimo: da una certa età in poi, molto prima di quanto ci si renda conto, le bambine perdono interesse per i campi cosiddetti STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) perché convinte di essere meno intelligenti dei maschi, o comunque meno portate per le discipline scientifiche.

Ora, io non voglio affermare né che sia vero né che sia falso in generale. Voglio solo permettermi di raccontare com’è stato per me, per giungere alla conclusione che forse, ma proprio forse, queste femministe inalberate, per quanto animate dalle migliori intenzioni, affrontino la questione in maniera non dico sbagliata, ma almeno un po’ incompleta.

Partiamo dalle basi: a me nessuno ha mai detto in faccia che le femmine, o la sottoscritta in quanto femmina, fossero meno intelligenti dei maschi o per natura meno inclini alle scienze dure. Di fatto, un periodo della mia vita in cui ero brava in matematica c’è stato, ed è durato all’incirca fino alla quarta elementare. Lo ricordo come un passaggio fondamentale: la maestra che ci insegnò a far di conto fino alla quarta e che tutti adoravamo per la sua dolcezza e i suoi metodi divertenti e coinvolgenti andò in pensione senza riuscire a portarci fino in quinta e fu sostituita da un’altra, che col senno di poi probabilmente era ingiusto giudicare male come la vedevo allora, ma che ci confuse tutti quanti. Con lei mi pareva di non essere più capace di fare cose che fino all’anno prima mi riuscivano benissimo, e cominciai ad aver paura della matematica. Ho sudato sui numeri da allora, a prescindere dai diversi insegnanti avuti, ciascuno con i propri modi e le proprie pretese. Ma nemmeno lei favoriva in alcun modo i maschi: eravamo spiazzati tutti.

In compenso, e qui sta il bello, capii che mi piaceva scrivere. Mi era sempre piaciuto, a dirla tutta, ma fino alla quarta forse non avevo una singola materia preferita. Magari avrei addirittura risposto “matematica” alla fatidica domanda, perché quando facevo i compitini per la maestra tanto buona e simpatica mi divertivo di più, ma per essere onesti non avevo ancora capito da che parte tendessero le mie inclinazioni naturali. Mi piaceva imparare, punto. Tutto. In quinta, con la delusione della nuova insegnante, mi buttai sul lato opposto anima e corpo e scoprii che, ohibò, scrivere era proprio una gran bella cosa che non mi faceva venire altrettanto mal di stomaco! Ed eccomi qua a scrivere per voi. Quel fatidico cambio è stata una delle esperienze più formative della mia vita, se vogliamo essere sinceri.

Però, però… capite cosa vuol dire essere una giovane donna che studia materie umanistiche e trovarsi davanti al naso analisi come quella riportata sopra? Fa venire dubbi infiniti. Fa star male. Almeno in parte, in quello stereotipo mi devo riconoscere: anch’io sono una femmina che ha perso interesse per le materie STEM durante l’infanzia, poco importa che la causa della perdita d’interesse, per come la percepisco io, sia ben diversa da quella indicata. E se stessi dando la colpa alla maestra erroneamente? E se avessi subito questo apparente lavaggio del cervello senza rendermene conto? E se fossi stata destinata a una brillante carriera che avrebbe messo in ombra pure Margaret Hamilton? E se, e se, e se…?

Ma come si suol dire, “con i se e con i ma la storia non si fa”. È successo quel che è successo, io ora studio materie umanistiche, mi piace farlo, e grazie tante. Non lo faccio perché credo che le donne non siano tagliate per fare le scienziate, ma perché credo che questa donna che sta scrivendo questo post abbia tutto il diritto di questo mondo di prendere un’altra strada per sincero interesse.

Alle femministe arrabbiate vorrei dire, alla fin fine, soltanto questo: noi studentesse non STEM, felici e per nulla limitate dalla nostra scelta, esistiamo. Se vedete una donna che sceglie Lettere o Filosofia, provate almeno a non presumere che l’abbia fatto perché persuasa dal padre, dai fratelli o dagli insegnanti (magari maschi) di non poter fare altro. Io trovo parte della radice di quel che sono ora in due insegnanti donne, addirittura, sicuramente entrambe valide, ma di cui una mi piaceva e l’altra no. Il sesso non ha niente a che fare con la loro bravura.

Non ho intenzione di negare che esista un marketing separato per genere nel vestiario e nei giocattoli, con l’azzurro da una parte e il rosa dall’altra e i giochi “da femmine” che a quanto pare ci vogliono tutte o casalinghe disperate o bellissime principesse, come se gli unici due modelli disponibili fossero le due opposte versioni di Cenerentola, mentre quelli “da maschi” propongono un ideale o di uomo d’azione stile supereroe o di intelligentissimo scienziato, col Piccolo Chimico e similari. Sarebbe da stupidi. Vedo benissimo che è così.

Ma non ho intenzione di permettere che un’invasione di video e articoli sull’argomento, per quanto veritieri, mettano in dubbio la validità del modo in cui sono stata cresciuta. Sentir dire, generalizzando a volontà, che le bambine vengono educate in funzione di stereotipi femminili limitanti e dannosi, è molto semplicemente un insulto ai miei genitori che non intendo sopportare. Non è così per tutte, alla faccia dei vari hashtag #YesAllWomen che impazzano sulle pagine delle femministe irriducibili.

Sì, ho avuto una cucina giocattolo.

Sì, ho avuto un’infinità di Barbie.

Sì, guardavo i film Disney in cui le principesse erano buone solo a cantare canzoncine e farsi salvare dal principe di turno.

Ma da piccola mi scambiavano per un maschio per via dei capelli corti.

Ho avuto il mio bravo set per gli “esperimenti scientifici” e, anche senza quello, riuscivo a fare infiniti pasticci nella cucina della nonna dopo aver guardato con gran piacere l’ultimo episodio de Il laboratorio di Dexter. E odiavo la sorellina scema.

Oltre al desiderio infantile di essere una principessa, ho avuto periodi di fissazioni decisamente “maschili”, se vogliamo dar retta ai compartimenti stagni, come le gerarchie dell’esercito e lo spionaggio alla James Bond.

Sì, vestivo e rivestivo le mie bambole e inventavo storie su storie. Ma le mie compagne di plastica erano impegnate anche in attività molto meno fashion, tra cui i tuffi acrobatici alla Tania Cagnotto e improbabili acrobazie circensi appese al filo del telefono.

A sentire mia madre adoravo Biancaneve e Cenerentola, ma quel che ricordo io è di aver corso per tutta la casa usando l’asta della nostra bandiera italiana come il lungo bastone con cui si allenava Mulan. Sapevo benissimo che a volte la principessa si salva da sola.

Questo non sembra proprio il profilo di una futura donna limitata dagli stereotipi di genere, o sbaglio?
Eppure eccomi qua. Studio Filologia, scrivo, se vedo un’equazione a distanza di dieci metri scappo. Uno stereotipo vivente. O no?

venerdì 17 giugno 2016

In sala lettura: La via del male, Robert Galbraith

Un giallo non proprio... canarino



Ai pochi lettori che mi saranno rimasti dopo tanto ingiustificabile silenzio, salve!
Oggi torniamo, come si conviene a un blog con questo nome, a parlare di libri.
Sono riuscita finalmente a mettere le mani sulla traduzione italiana, non proprio fresca di stampa ma poco ci manca, del terzo episodio delle rocambolesche avventure londinesi e non solo dei miei amati Cormoran Strike e Robin Ellacott, La via del male (Career of Evil), e naturalmente eccomi qui a recensirlo: ormai è un punto d’onore, se il blog sarà ancora vivo e vegeto quando la serie finirà prometto che vi troverete la collezione intera. Ho inaugurato le mie recensioni col primo e forse irrazionalmente mi sono convinta che questi benedetti gialli mi portino fortuna.
Parliamo innanzitutto del titolo, che fa subito crollare miseramente come un castello di carte la mia vecchia teoria dei nomi di animali: in questo qua non ce n’è traccia, né in una lingua né nell’altra, quindi addio al barlume di struttura che avevo intravisto nei due precedenti. Pazienza.
In compenso, la ragione di questo titolo, come nel secondo episodio, si afferra ben presto: è la citazione di un verso di una canzone, tema che accompagnerà il libro intero, sia all’interno del testo sia in apertura dei vari capitoli, tutti inaugurati da qualche stralcio dall’attinenza più o meno immediata al suo contenuto, com’era stato ne Il baco da seta con le frasi tratte da libri. Tra l’altro, l’edizione italiana riporta i testi in inglese, ma contiene una lunghissima appendice che riporta prima titoli, autori e copyright di tutto quanto, e infine le traduzioni in bella fila. Comodo, per chi ha poca dimestichezza con la lingua originale.
Le canzoni citate sono talmente tante, e (quasi tutte) talmente unitarie nel criterio di scelta, da fornire quasi una colonna sonora alla lettura: io finora ne ho ascoltata una soltanto, la prima e forse più importante, e mi sono fermata lì perché il gruppo che ne canta la maggior parte, i Blue Öyster Cult, è lontano anni luce dal mio genere, ma alcuni titoli e testi sono interessanti, per quanto decisamente allucinati, e potrei provarne qualcun’altra a breve.
(Vi lascio qui il link a quella che ho già sentito, Mistress of the Salmon Salt. Invece di stare a guardare l’immagine fissa per cinque minuti e qualcosa, leggete i commenti, vi strapperanno un sorriso. Non li ho guardati con attenzione, ma mi sembrano pieni di cultori della band che fanno come da copione i superiori, stile: “Siete qui solo per il romanzo, poser che non siete altro! Noi sì che ascoltiamo vera musica!”, altri che invece sembrano contenti che l’autrice abbia creato un enorme bacino di potenziali nuovi fan, e gente che ammette apertamente di essere arrivata al video grazie al libro.)
Ancora due parole sulla struttura dei capitoli, che ci porteranno ben presto ad affondare i denti… ehm, okay, metafora sbagliata e vedrete subito il perché, che schifo… nel contenuto. Prestate sempre attenzione a dove si trova il pezzo di canzone. Se il capitolo che avete davanti al naso è soltanto numerato e lo riporta prima del testo, elegantemente allineato a destra, tranquilli: si parlerà di Robin e di Strike dal solito punto di vista che già conoscete. Se invece oltre al numero ha anche un titolo suo, sempre tratto da una canzone, e nessuna citazione in apertura, tremate: si tratta di capitoli anomali, di solito brevi, scritti dal punto di vista dell’assassino. Sono pochini, tredici (il numero avrà qualche significato? Li ho contati or ora e non mi ero resa conto prima di quanti fossero…) su sessantadue, e vengono a cadenza irregolare, ma più che farmi venire i brividi mi mettono addosso la nausea. Sarà che ultimamente si è fatto un gran parlare di femminicidio e lo Squartatore di Shacklewell (cominciate a capire il motivo del mio disgusto, vero?) privilegia le donne, sarà che la prima delle sue vittime, un vecchio caso irrisolto, è una delle moltissime italiane a Londra e porta il mio nome, cosa che mi ha fatto un’impressione fortissima, ma mentre li leggevo ero divisa a metà tra l’impulso di levarmi un immaginario cappello di fronte all’abilità dell’autrice di calarsi nei panni della mentalità malata del killer e quello di posare il libro e correre in bagno a vomitare.
E dunque? Un giallo completamente sradicato, in cui l’identità del criminale di turno già si sa, visto e considerato che uno di quei capitoli è addirittura il primo? Il bello è proprio questo: no! È un giallo atipico per altri motivi, ma non questo. La suspense resta intatta perché, attraverso qualche salto mortale linguistico, i non troppo magnifici tredici sono scritti in modo da indirizzare ora verso l’uno, ora verso l’altro dei tre grandi sospettati, senza dare a intendere di chi si tratti.
Veniamo al dunque (ho quasi scritto “al sodo” ma non ce la faccio): sospettati di che? Di aver non solo ammazzato prima una e poi diverse ragazze, ma di aver tagliato una gamba a uno dei cadaveri, esattamente nel punto in cui quella di Strike era stata amputata dopo la ferita di guerra, e averla recapitata in un pacco, come se nulla fosse, all’indirizzo dell’agenzia di investigazione, intestata – attenzione, popolazione! – non al detective, ma a Robin, che come si evince dai capitoli titolati, l’assassino ha puntato come prossima vittima.
E questo è un altro dei modi in cui La via del male si rende un giallo atipico. Ormai, dopo due episodi, ci eravamo abituati alla struttura abbastanza classica dell’avventura un po’ alla Sherlock, in cui arriva il cliente, espone il problema, il caso si apre, si sviluppa, si chiude, arrivederci e tanti saluti e baci, il tutto con le vite private di Robin e Strike che vanno avanti sullo sfondo, ma senza che i due si lascino coinvolgere troppo dalla faccenda a livello personale. Qui invece la questione è personalissima, i protagonisti sono ancora più direttamente in pericolo del solito, e non solo gli stereotipi “assistente del detective” e “povera vittima braccata” si fondono in un personaggio unico, ma Strike è certo che chi ha spedito il macabro regalo sia una di tre persone ben precise provenienti dal suo burrascoso passato di prima e durante la carriera militare: o il terribile patrigno Jeff Whittaker, o uno di due commilitoni con dei conti in sospeso con lui, Noel Brockbank e Donald Laing.
E l’atipicità continua, perché questo stato di cose fa sì che ogni scusa sia buona per scoprire un nuovo pezzo dei finora fumosi trascorsi di entrambi i nostri eroi, Strike in particolare ma anche Robin, lasciandoci con un quadro molto più completo di prima di chi siano e del perché facciano quello che fanno. Ottimo, ma quasi distraente: la proporzione tra il presente della storia (e che presente: cronologicamente definitissimo, incastrato tra arcinoti fatti di cronaca quali il matrimonio tra William e Kate e la morte di bin Laden) e i continui flashback dà a questi ultimi molto più spazio del consueto, aiutando sì a tracciare profili uno peggiore dell’altro dei tre potenziali Jack del nostro secolo (e il paragone non è mio, lo trovate nel libro e non è affatto casuale), ma facendo qui e là desiderare di tornare al filo principale.
Quel che invece mi è piaciuto molto di questa scelta insolita è che ci dà un’ulteriore conferma che nessuno dei due è perfetto: sia a livello d’indagine che di vita privata, a mio modestissimo parere, entrambi fanno una notevole collezione di cavolate in questo libro, lasciandoci alla fine in una situazione personale e professionale da cui, onestamente, non so proprio come la zia Jo riuscirà a farli uscire. Il finale dell’episodio non mi suona neanche lontanamente come un finale di serie, ma non riesco davvero a immaginare come si potrà tornare a un qualcosa di anche solo vagamente somigliante al vecchio status quo dopo gli avvenimenti de La via del male. Vorrà dire che aspetteremo con ansia. Anzi, sono talmente imperfetti che qui e là ho intrattenuto l’idea che gli antichi risentimenti stessero compromettendo l’abilità investigativa di Strike e lo Squartatore di Shacklewell potesse anche non essere nessuno dei tre. Se vi dico che come sempre avevo torto marcio è uno spoiler già troppo grosso?
Parliamo ora, invece, di quel poco di tipico che resta nel libro: al solito, nessuna paura nel mettere in bocca ai personaggi un numero impressionante di “porca troia” e similari, le vecchie autocensure dell’innocente J.K. Rowling gettate dalla finestra in favore del linguaggio duro e grezzo dell’alter ego Robert Galbraith. E forse, anche se il mondo intero sa che sono la stessa persona, è proprio questo nascondersi dietro il velo ormai piuttosto inutile di un altro nome che la fa sentire un po’ più libera. Citando direttamente dai ringraziamenti finali: “Non ricordo di essermi mai divertita tanto a scrivere un libro come La via del male. Ed è strano, non soltanto per il suo tema cruento, ma anche perché raramente sono stata impegnata come negli ultimi dodici mesi, durante i quali sono dovuta passare da un progetto all’altro, che non è il mio modo preferito di lavorare. Nondimeno, ho sempre considerato Robert Galbraith il mio personale parco giochi, e anche stavolta non mi ha delusa.” (p. 585)
Dunque, infiliamoci noi il cappello da cacciatore di cervi e vediamo di analizzare queste parole e cavarne il più possibile. Il “passare da un progetto all’altro”, se siete Potterhead quanto me, sapete tutti a cosa si riferisce: e la sceneggiatura di Animali Fantastici, e il lavoro a teatro per The Cursed Child… ce n’è per amici e parenti, è vero, e tanto di cappello per aver gestito i diversi impegni come le palline di un giocoliere. Ma “divertita”? “Parco giochi”? Santo cielo benedetto! Se non ammettesse lei stessa che è strano, mi preoccuperei. È proprio vero che tutti i migliori sono un po’ matti. Stiamo parlando di un serial killer con la mania di mutilare le sue vittime per farne trofei, l’indagine trascina la nostra coppia in lungo e in largo per le Isole Britanniche tra gli alti dei paesini pittoreschi (tutti o quasi visitati davvero per ricavarne le sue solite vivide descrizioni) e i bassi del disagio sociale, la droga, la prostituzione e la pedofilia, anche solo le ricerche su Google di Robin la portano in un mondo a metà tra il sordido e il penoso che nemmeno sapevo esistesse (vi lascio qui solo qualche parola chiave da provare a cercare a vostra volta: acrotomofilia, Body Integrity Identity Disorder, transabilità), e questa dice di essersi divertita? Accidenti. Devo un po’ rivedere l’immagine idealizzata che avevo di lei. Capisco che possa essere in un certo senso liberatorio, allo stesso modo in cui certi attori dicono che sia terapeutico interpretare con dedizione i grandi cattivi del teatro, ma – l’ho detto e lo ripeto – la sua capacità di calarsi in una mente in cui chiaramente qualcosa non va ha dell’incredibile. Ce n’eravamo già un po’ accorti ai tempi del maghetto con Bellatrix Lestrange, ma se dovessi dire chi sia messo peggio tra la strega portata sullo schermo da Helena Bonham-Carter e il colpevole di turno de La via del male, sarebbe una bella lotta.
Altro tratto che grazie al cielo non destabilizza troppo, e che metto in chiusura perché a questo giro non c’è molto da dire al riguardo: i nomi. Se non me ne sono sfuggiti clamorosamente alcuni, in questo episodio l’autrice rinuncia quasi del tutto ai nomi parlanti, se non per il fatto, spiegato esplicitamente, che uno degli indiziati, Noel Brockbank, e la sua gemella Holly si chiamano così perché nati il giorno di Natale (“holly” vuol dire “agrifoglio”, se già non lo sapevate grazie al testo della famosa carola natalizia Deck the Halls).
In compenso, la teoria dei pennuti resiste. Forse sta esalando gli ultimi respiri, ma è viva, almeno quella. Un nome di uccello, uno soltanto, come l’ultima volta, è riuscita a infilarlo, anche se è assai probabilmente uno pseudonimo ed è destinato a un personaggio d’importanza che dire secondaria è già generoso: Raven, per gli amici “corvo”.


Ma quel che mi è piaciuto di più in questa tornata di acrobazie onomastiche è che la scelta di certi nomi (non vi dico quali, vediamo se anche voi avrete la stessa reazione che ho avuto io) induce a fare dei collegamenti forse un po’ traballanti, forse un po’ tanto improbabili, ma che danno davvero la sensazione di essere sulla buona strada verso il colpevole e fanno sentire intelligentissimi per circa cinque minuti… se poi l’impressione duri fino alla fine, questa è un’altra storia.
Insomma, preparatevi a restare col fiato sospeso, letteralmente: com’è, come non è, Robin riesce ad avere scontri frontali di varia natura con tutti e tre i potenziali assassini, e l’ultima battuta pronunciata ad alta voce in tutto il libro è sua… coriacea, la ragazza.
Valutazione complessiva:

giovedì 25 febbraio 2016

Lo strano caso dei fiori "petalosi"

La lingua è viva, anzi vivissima!


Salve, gente!

Avete sentito l’ultima? Potrebbe esserci una nuova parola in arrivo di cui il nostro panda avrà sicuramente voglia di occuparsi.

Se avete seguito un po’ il tam-tam che si è creato sui social network, non avrete di certo bisogno di questo breve riassunto della faccenda: un bambino di otto anni, nello svolgere un esercizio sugli aggettivi, ne ha prodotto uno che sul dizionario non esiste, ma che – ohibò! – ha senso, e la maestra non solo ha scritto all’Accademia della Crusca, ma ha pure ottenuto una celere risposta.

E che risposta! Non solo per il tono, che per fortuna è calibrato sul livello del piccolino e non su quello di un linguista laureato con tutti gli onori, ma proprio per il contenuto. Scommetto che se dico “Accademia della Crusca” molti di voi penseranno a una manica di bacchettoni antiquati con la matita rossa e blu da maestrini in resta, e invece a quanto pare non è così. Ci sono, come vedremo, legioni di commentatori che pensano che l’istituzione sia caduta in basso con questa recente mossa, ma rimane il fatto che chi ha scritto a Matteo non dice nemmeno una volta che questa benedetta parola “petaloso” sia inaccettabile. E se ci pensiamo bene, il ragionamento non fa una grinza: di sicuro verranno in mente anche a voi infiniti altri esempi, oltre a quelli in foto, di parole costruite esattamente in questo modo.

E proprio qui, forse forse, sta l’inghippo. Intendiamoci: tanto di cappello alla maestra che ha deciso di non umiliare l’alunno per il suo errore e premiarne invece la creatività di fronte alla consegna, o le capacità di problem solving, se vogliamo farci belli (o brutti?) con uno di quei termini inglesi che fanno tanto moderno e ai signori accademici fanno venire la pelle d’oca. Sì, l’ho usato apposta. No, di solito non parlo né scrivo così. Ma l’impresa di Matteo, se vogliamo essere brutalmente sinceri, non è straordinaria come il popolo dei social vuole farla sembrare. Inventare parole che non esistono a partire da meccanismi molto produttivi, come un nuovo aggettivo in “-oso” oggi o un nuovo verbo in “-are” domani, è una cosa che credo abbiamo fatto non dico tutti, ma tanti. Creare un termine dal nulla laddove la parola o frase giusta non viene in mente, per scarsa padronanza del lessico o non so quale altro motivo, o regolarizzare parole ostiche dal comportamento imprevedibile per chi non abbia ancora fatto molti studi formali di grammatica, sono fatti naturalissimi che fanno parte dell’apprendimento di qualunque lingua, italiano compreso. Chissà quante simili stranezze avrò detto io stessa da piccola! Se me le ricordassi, sarei ben felice di farne una lista: chissà che alla Crusca non ne possa piacere qualcuna. E quante, confesso, ne dico ancora! Queste, però, non voglio elencarle, perché non vi servirebbero a niente, a meno che non vi troviate a dover descrivere un certo gattone un po’ scontroso con una macchia sul nasino. A proposito, posso dire che Leo è “macchioso”? Posso? È una parola tanto carina…

Diamo ora un’occhiata ai due estremi opposti che si sono generati, com’era ovvio, nella fiumana di reazioni su Facebook:


(Lasciamo perdere i miei pietosi tentativi di censurare l’ancora visibilissimo turpiloquio e andiamo avanti, OK? Grazie, troppo buoni.)

E dunque: “petaloso” sì o “petaloso” no? Francamente, è presto per dirlo, e anche la campagna su Internet per aiutare il piccolo Matteo a diffondere la sua parola non so se basterà per farla inserire nella prossima edizione di qualche vocabolario autorevole. Ci avete provato, gente, e probabilmente una gran bella spinta verso l’approvazione l’avete anche data, ma non penso che sia ancora sufficiente. O forse sì, chi può dirlo? Non è compito mio né di tanti studiosi più validi di me avere la sfera di cristallo.

Io questa parola non riesco a farmela piacere tanto, ma da studentessa che con queste cose ha a che fare ogni giorno mi rendo conto che si tratta, né più né meno, di un effetto simile a quello che può fare la musica della nostra generazione ai nonni: “Non è musica, è rumore!”. Se fossi abituata a sentirla, mi apparirebbe perfetta.

C’è anche chi dice che “non se ne sentiva il bisogno”, che è un modo brutto per dire ciò che fino a ieri si poteva esprimere con qualche paroletta in più, ma più elegantemente, per esempio “con tanti petali”, “ricco di petali”. E qui casca l’asino (no, non sto dando dell’asino a nessuno in particolare): tu che commenti puoi non sentirne il bisogno, ma ne aveva bisogno Matteo in quel momento.


Ecco infatti l’esercizio originale che ha provocato tutto questo. La maestra chiedeva due aggettivi per ogni nome: singole parole che rientrano in quella categoria grammaticale, non locuzioni formate da più di una. Matteo, poveretto, avrà avuto voglia di esprimere il concetto “con tanti petali” per descrivere il fiore che immaginava, ma si sarà reso conto, presumo, che scrivere “con tanti petali” avrebbe violato la regola data dalla consegna, e così si è arrangiato. Sì, se ne sentiva il bisogno. O almeno, una persona l’ha sentito, e la necessità aguzza l’ingegno, per dire la banalità del giorno.

È una parola valida, non si discute. Qualunque manuale lo confermerebbe. Se poi abbia anche il giusto potenziale per diventare parte integrante della nostra lingua, non saprei dire. Ma era proprio necessario coinvolgere l’Accademia e farne un caso nazionale? Sinceramente, trovo il comportamento di questa maestra un po’ estremo. Encomiabile, ma estremo. È una cosa meravigliosa che abbia deciso di non mettere Matteo in imbarazzo per il modo poco ortodosso in cui se l’è cavata, proteggendo la sua delicatissima autostima di bambino, ma quel che ha ottenuto è stato soltanto di metterlo sotto i riflettori, facendolo finire su Internet e in TV, e questo, per la soluzione di fatto ancora errata, per quanto simpatica, tenera e divertente, di un esercizio d’italiano, è davvero troppo.

Con questo non intendo dire che non sappia fare l’insegnante e che dovrebbero toglierle la cattedra: se notate, l’ha segnato comunque come errore, quindi non era sua intenzione premiare una risposta sbagliata. In effetti, se guardo il suo metodo, sento nascere in me qualcosa che non saprei definire altrimenti che invidia. C’è una certa poesia nell’espressione che ha usato, “errore bello”. Magari avessi avuto io delle maestre “poetesse” così! Se ripenso alla mia esperienza delle elementari, mi viene in mente solo un clima in cui una cosa come “errore bello” non era soltanto un ossimoro, ma proprio un adynaton, parolone greco che vuol dire “impossibile”, una cosa che non sta né in cielo né in terra. Gli errori belli nella mia classe non esistevano, una parola inventata sarebbe stata un errore e basta, e non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di scrivere “errore brutto”, perché erano brutti tutti, sempre. Altro che Crusca! Magari sono ricordi distorti dal tempo, ma io credo sinceramente che nessuna delle mie insegnanti avrebbe fatto una cosa simile.

Né, ripeto, penso che scrivere all’Accademia sia stata la soluzione corretta: se è un’insegnante d’italiano, voglio sperare che abbia le competenze per spiegare lei stessa, vocabolario alla mano, esattamente gli stessi concetti, in fondo semplici, espressi nella lettera della Crusca. Comprendo benissimo che il tempo per finire i programmi ministeriali sia sempre poco, ma sarebbe stato forse meglio fermarsi un momento e prendersi quanto necessario (dieci minuti? Mezz’ora?) per dire: “Cari bambini, il vostro compagno Matteo ha scritto un aggettivo che sul dizionario non c’è, ma sapevate che un giorno, forse, potrebbe esserci? Che ne dite di scoprire insieme come nasce una parola nuova?”. E via con un’appassionante, imprevista lezioncina alternativa sui neologismi, che magari avrebbe sottratto un po’ di prezioso spazio allo studio degli aggettivi, ma che la classe non avrebbe mai dimenticato. Niente Crusca, niente hashtag, niente telecamere, ma solo un bellissimo ricordo.


E allora? Abbastanza petalose per i vostri gusti?

mercoledì 25 novembre 2015

L'abito non fa il monaco... e il titolo?

Riflessioni post-laurea



Salve a tutti!
Perdonate l’ennesima lunga sparizione, ma durante quest’ultimo periodo di silenzio sono successe tante cose, la più grossa delle quali è che mi sono laureata.
Spero dunque che giustificherete un post un filino più egocentrico del solito. Sento il bisogno di buttar giù qualche riga sul valore di questo parolone che mi è piovuto addosso dal cielo, “dottoressa”, e chiaramente dovrò parlare estesamente della mia esperienza per farlo.
Quello che mi chiedo è perché certa gente dia ai titoloni tanto valore. Non propongo di abolirli, per carità, né intendo sminuire la fatica di nessuno nell’ottenerli, perché così facendo svilirei anche me stessa, e questo vedete bene che è illogico (immaginate che io abbia appena sollevato un sopracciglio à la Spock, se vi pare). Laurearsi è un parto, in un certo senso: in questi ultimi mesi, quando chiamavo scherzosamente ma non troppo la tesi “la mia bambina”, non esageravo poi tanto. Dunque non ritengo che richieda poco sforzo, o che non si debba riconoscere il valore della laurea. Lungi da me.
Ma il peso dato alla parola “dottore”, francamente, un po’ mi schiaccia, e non perché sia troppo piena di significato, ma perché è troppo vuota. Sembra un paradosso, ma vedrete che non lo è. Cerco di spiegarmi meglio con un esempio pratico, il mio.
Ho conseguito il titolo il 23 settembre 2015. Ebbene? Quando scatta la magia? Il 23 sono miracolosamente diventata una persona diversa rispetto al 22? Oppure per far funzionare l’incantesimo ci vuole una sola ora, cosicché non ero nessuno alle tre e, abracadabra, ero diventata qualcuno alle quattro? O cinque minuti? Plebea alle 15:55 e improvvisamente nobilitata alle 16:00? O una manciata di secondi, quelli necessari alla presidente di commissione per finire la frase? Neanche fosse “bibidi bobidi bù”. Francamente, non faccio nomi, ma la professoressa nel ruolo della Fata Smemorina non ce la vedo proprio.
Visto? Davvero un pessimo effetto, non trovate?

No, scusate tanto, ma per me non funziona così. A renderti una persona diversa e – si spera – migliore non è la discussione della tesi, che, parliamoci chiaro, è stata uno dei momenti più adrenalinici della mia vita, né tantomeno qualche frasetta cerimoniale seguita da un giro di strette di mano. È l’esperienza intera, con i suoi alti e bassi, gli sforzi intellettuali e, diciamocelo, anche fisici che implica (sondaggio tra studenti più o meno in crisi: voi dopo un esame avete fame? Io non sono brava a valutare il consumo di calorie che comporta, ma sono convintissima che qualcosina si bruci!). Il titolo altro non è che una formalizzazione di questo percorso, un qualcosa che serve a dire al mondo che l’hai fatto, che sei sopravvissuto anche a questo, ma anche se non ci fosse, io per parte mia non rischierei certo di scordarmelo. Mi ha lasciato dei segni, metaforici ma neanche tanto, che se anche fossi mai stata interessata a farmi un tatuaggio sarebbero già sufficienti a levarmi la voglia. Anche se nessuno mi chiamasse mai più “dottoressa”, quel che ho passato lo saprei io. So quanto ho sudato per arrivare fin qui, ricordo ogni crisi isterica pre-esame, l’incubo in cui il professore sembrava parlare in ostrogoto antico del Nordest (?) per quanto ne capivo, quello in cui il mio inconscio o chi per esso assimilava gli esami agli Hunger Games, quello in cui ricevevo un maldestro tentativo d’incoraggiamento a suon di onore guerriero da parte di Worf (Star Trek: The Next Generation e Deep Space Nine, per chi non è abbastanza nerd da saperlo) e anche quello in cui un fantomatico scritto d’inglese veniva valutato in tandem dalla mia maestra delle elementari e dal presidente Obama. Credetemi, so quanto vale una laurea. Ma lo saprei anche senza titolo.
Perché insistere tanto? È una questione di rispetto, direte voi. Ma il rispetto non sta in una sola parola, sta in tutto l’atteggiamento che viene prima, durante e dopo. Se non mi chiamano “dottoressa” ogni due per tre, io non la percepisco affatto come mancanza di rispetto. Per esempio, mi sento più rispettata da una persona che, senza usare questa benedetta parola, mi coinvolga in una conversazione interessante da pari a pari e mostri di prendere sul serio il mio punto di vista che da una che usi mille titoli e salamelecchi e poi mi annoi a morte blaterando di argomenti in cui non posso inserire più che qualche “Certo”, “Infatti” e “Mm-hm” di circostanza, ignorando il mio disinteresse e andando avanti come un bulldozer.
Obietterete che se non uso il titolo che uno si è guadagnato col sudore della propria fronte quella persona potrebbe offendersi. Nulla di più distante dalle mie intenzioni. Il titolo, se so che una persona ce l’ha, lo uso, perché la convenzione sociale dice così e va seguita, che mi piaccia o no. Ma siamo proprio sicuri sicuri che il valore di un uomo o di una donna stia in quelle poche letterine prima del nome? Non ditemi che non vi è mai capitato di conoscere qualcuno che titolato non è, ma che per voi vale dieci dottori, cinque chiarissimi professori e tre eccellenze, perché ha fatto esperienze di vita che certi eruditi si sognano, o perché è una persona di buon cuore che vi ha aiutato quando altri, con le loro fior di pergamene appese alla parete dello studio, vi hanno voltato le spalle.
E poi, onestamente, questo titolo quanto vale davvero? Sia chiaro, ancora una volta, che non voglio sminuire proprio nessuno (ricordate quello che ho detto prima: se sminuisco i dottori in generale, sminuisco pure la sottoscritta), ma guardiamo i fatti: la società cambia, e il valore dei titoli con essa.
Mi hanno regalato un set di biglietti da visita con il mio nome preceduto da questa sigla benedetta. Grazie mille. Non ho (ancora) l’abitudine né l’occasione di distribuirli a destra e a manca, ma grazie mille. Non sputo in faccia a un regalo. Mi piace pensare di essere stata educata meglio di così. Ma proprio perché, per ora, l’utilità pratica di questo dono così elegante è pochina, è dolorosamente chiaro che si tratti di un gesto compiuto per la soddisfazione di vederlo scritto da qualche parte. Dato che una targa sulla porta sarebbe un po’ troppo, si è deciso di ripiegare sui biglietti, diciamo. Ma io non ho passato tre anni della mia vita a studiare per una targa o per un set di biglietti o per non so quale altra gloriosa scritta. L’ho fatto per me stessa, per migliorarmi, per imparare, per fare esperienze, e tutto questo sarebbe successo ugualmente anche se non fosse stata versata una sola goccia d’inchiostro per sottolinearlo.
Eppure c’è gente, anche a me molto vicina, che a vederlo scritto e a sentirlo dire tiene più di me. Una figlia, una nipote dottoressa suona bene. Per la gran carità, suona bene pure a me, ma non tanto da pensare che debba precedere il mio nome ovunque io vada. Ora che frequento la magistrale, dovrei sentirmi svilita dai non rari professori che danno del tu agli studenti e inalberarmi a nome mio e dei miei colleghi perché non ci chiamano tutti dottori e dottoresse? Semmai mi fa ancora un po’ strano il contrario: ho impiegato un 90% buono della mia esperienza con la triennale solo a cominciare ad abituarmi al “lei”! Dovrei arrivare all’estremo francamente ridicolo di pretendere il titolone sempre e comunque da tutti, anche da chi fino a due mesi fa non si faceva problemi a chiamarmi per nome? Ma fatemi il favore! Attaccarsi tanto al titolo è, diciamolo gentilmente, una pratica un po’ vintage. E lo dico solo perché scrivere la parola “anacronistico” mi fa paura, probabilmente mi attirerebbe un po’ di ire funeste, quindi evitiamo.
La parola “dottore” è inflazionata. Non lo dico né con gioia né con malinconia. È un semplice dato di fatto: oggi ci sono, numeri alla mano, più dottori che in passato. Sì, mi sono laureata, e questo fa di me, legalmente, una dottoressa. Questo fa un effetto molto diverso su mia nonna che su di me, tanto per fare un esempio. I miei nonni, benedetti loro, sono della generazione che chiama “scuole alte” le superiori, figurarsi l’università. Sono ancora intrisi di un’idea di società diversa, cristallizzata come un insetto in un pezzo d’ambra. Percepiscono una nipote dottoressa come un avanzamento sociale, sono convinti che ci sia qualcosa di speciale in quelle dieci letterine, non si rendono conto di quanto stia diventando comune.
Non ne faccio loro una colpa, ma le cose ormai stanno diversamente da come le vedono. Per me, l’idea di andare all’università era praticamente scontata. So che dovrei essere molto più grata per il mio diritto allo studio di quanto queste frasi mi facciano sembrare, e lo sono, fidatevi, ma devo di necessità essere un po’ brutale. Per valere qualcosa sul mercato del lavoro, non avevo alternative.
Osserviamo da vicino un normale percorso d’istruzione di oggi. Userò il mio come esempio perché lo conosco meglio, e mi rendo conto che ce ne siano (per fortuna!) di diversi, ma ritengo che sia adatto a spiegare bene quello che intendo.
Partiamo da lontano: zainetto in spalla, primo giorno di scuola elementare. Mi aspettano cinque anni, e di scelta non ce n’è. Chiamasi scuola dell’obbligo, e questo nome esiste per un motivo ben preciso.
Poi vengono le medie: altri tre anni fissi, siamo ancora in quella lunga fase in cui la scuola è sì un diritto, ma è anche, per legge, un dovere.
Successivamente migro verso il magico mondo delle superiori, nel mio caso il liceo classico. E qui succede la prima cosa strana: l’obbligo dura fino a sedici anni. Sedici. Ohibò e poffarbacco. Ciò vuol dire che una parte è obbligatoria e l’altra no! Volendo, potrei mollare. Certo che non voglio (be’, a parte in quei momenti in cui la versione di greco di turno mi fa strappare i capelli), però, accidenti, potrei. Ma parliamo con franchezza: al giorno d’oggi, chi lascia la scuola a sedici anni lo fa per motivi gravi. Non ho intenzione di giudicare, né bene né male, chi decide di farlo, ma a meno che la vita non gli metta tra le ruote delle travi portanti, più che dei bastoni, per lo più lo studente medio della mia generazione a sedici anni non smette. E allora andiamo avanti e acceleriamo la videocassetta fino alla maturità. Adrenalina in corpo a mille, studio matto e disperatissimo, tema su Montale, versione di Aristotele, quizzone, il temutissimo orale. E ora?
E ora, be’, suvvia, l’università è uno sbocco naturale per il classico, non vorrai mica smettere adesso! No, certo che no. Non voglio dire che l’università non fosse una prospettiva attraente. Non vedevo l’ora di cambiar musica, ad essere proprio sincera, e con questo non intendo accusare nessuno. Dopo cinque anni, è fisiologico essere stanchi e aver bisogno di un nuovo inizio. Dico solo che non c’è mai stata una vera scelta, se non quella della facoltà e della città dove frequentarla. L’obbligo, questo mostro con le catene ai polsi e la palla al piede, è finito già da un po’, formalmente, ma informalmente è ancora lì, vivo e vegeto. Seconda stranezza.
E allora via, nuova casa, nuovi amici, nuove abitudini, nuovo tutto. Si sentiva proprio la necessità di una boccata d’aria fresca, e alla faccia della boccata. Sono stati, giustamente, i tre anni più intensi della mia vita, ed è altrettanto giusto che si siano conclusi con un riconoscimento in pompa magna.
Ma una laurea conseguita nel 2015, socialmente, ha ancora lo stesso valore di una del 1965 o di ancor prima? Il “pezzo di carta” è diventato sempre più necessario col passare degli anni, è diventato un requisito anche per svolgere lavori che prima non lo richiedevano, e qui torniamo alla vecchia questione del valore di una persona.
Prendete gli infermieri, per esempio. Oggi esiste la facoltà di Scienze Infermieristiche, e grazie al cielo esiste! Tutti vogliamo che l’infermiere che si occupa di noi quando stiamo male sia il meglio del meglio che l’ospedale ha da offrire. Ma non è sempre stato così. Un tempo, fino alla generazione di mia madre e anche oltre, era sufficiente iscriversi a una qualunque scuola superiore, generalmente di stampo professionale, e frequentarne due-tre anni per poi passare alla scuola per infermieri, una scuola di ordine molto pratico che prevedeva una lunghissima e men che piacevole gavetta in ospedale. Questo significa che attualmente nei nostri ospedali lavorano tranquillamente infermieri provenienti da entrambi i percorsi: i giovani usciti freschi freschi da Scienze Infermieristiche da una parte, e dall’altra i più “veterani” che hanno ottenuto il posto quando la facoltà non era nemmeno ancora stata fondata. E voi, dove con “voi” intendo la parte dei miei lettori con le conoscenze mediche dell’italiano medio, quando andate a fare il prelievo periodico del sangue riuscite a distinguere i laureati come se avessero scritto “dottore” in fronte, o li trovate entrambi ugualmente bravi (o, ahimè, un po’ meno bravi) a svolgere simili compiti di routine?
Con ciò non intendo dire né che la facoltà non avrebbe ragion d’essere, né che Scienze Infermieristiche faccia parte di quell’elusivo gruppo di indirizzi universitari perfidamente soprannominato “Scienze delle Merendine”. Per la carità! Sono laureata in Lettere, le materie umanistiche sono le prime a cadere come mosche sotto i colpi di tali appellativi non troppo lusinghieri, non mi permetterei mai di sparare giudizi simili sugli altri. Ma se avere il titolo fosse indispensabile come l’aria che respiriamo, non credete che butterebbero fuori a calci tutti gli infermieri un po’ più attempati perché non più adatti ai requisiti più selettivi della medicina moderna?
E delle maestre che mi dite? Oggi diventare insegnante, a qualunque livello, è una gran complicazione. Lo so più per sentito dire che per esperienza diretta, perché per quanto si ripeta che l’insegnamento è la prosecuzione naturale degli studi di Lettere, non è questo che intendo fare, quindi posso riferire poco o nulla, basandomi sulle esperienze dei colleghi che inveiscono contro i crediti necessari, il TFA e non so che altro.
E per le maestre elementari, che hanno il delicatissimo compito di formare i bambini, esiste quest’altra relativa novità chiamata Scienze delle Formazione. Ma anche quella, rispetto ad altre, è una facoltà assai giovane. Cosa succedeva prima? Leggete e trasecolate: le maestre elementari dei “bei” tempi andati, di cui ho già avuto modo di parlare, non erano nemmeno laureate! Quale immenso orrore! Dopo le medie facevano le magistrali, che duravano quattro anni. Avete letto bene, quattro. Di fatto, in termini di tempo, studiavano meno di un ragioniere o di tante altre figure professionali a cui si richiedesse di completare almeno una scuola superiore da cinque, eppure erano rispettatissime, alla maestra si aveva paura perfino di dare torto.
Finita la pericolosa digressione in questo campo che conosco così poco, tiriamo le somme: a mio modestissimo parere, il concetto di “scuola dell’obbligo” sta invecchiando, e invecchiando cambia, non significa più la stessa cosa. C’è l’obbligo di legge, e poi ce n’è un altro tipo, più sottile, che forse assume forme e durate diverse per ciascuno di noi. Il primo si ferma a sedici anni, il secondo… be’, non lo so, ma ho come l’impressione che stia crescendo a vista d’occhio. Per me si è esteso come minimo alla triennale, e francamente sento che resiste ancora adesso. Una laurea magistrale sta meglio sul curriculum, e pertanto va ottenuta.
Non dico che questo sia una brutta cosa. Tutt’altro. So di essere fortunata, privilegiata, a vivere in un Paese in cui il diritto allo studio ha raggiunto un punto tale da farmi prendere l’università come un dato di fatto. Eppure… bella soddisfazione, essere chiamata dottoressa dopo aver fatto soltanto una lunga, lunghissima scuola dell’obbligo. Che gusto c’è nei titoli, a questo punto? Inventiamone uno anche per i bimbi che finiscono la quinta. Ogni ciclo dovrebbe averne uno, per quello che valgono.