venerdì 17 giugno 2016

In sala lettura: La via del male, Robert Galbraith

Un giallo non proprio... canarino



Ai pochi lettori che mi saranno rimasti dopo tanto ingiustificabile silenzio, salve!
Oggi torniamo, come si conviene a un blog con questo nome, a parlare di libri.
Sono riuscita finalmente a mettere le mani sulla traduzione italiana, non proprio fresca di stampa ma poco ci manca, del terzo episodio delle rocambolesche avventure londinesi e non solo dei miei amati Cormoran Strike e Robin Ellacott, La via del male (Career of Evil), e naturalmente eccomi qui a recensirlo: ormai è un punto d’onore, se il blog sarà ancora vivo e vegeto quando la serie finirà prometto che vi troverete la collezione intera. Ho inaugurato le mie recensioni col primo e forse irrazionalmente mi sono convinta che questi benedetti gialli mi portino fortuna.
Parliamo innanzitutto del titolo, che fa subito crollare miseramente come un castello di carte la mia vecchia teoria dei nomi di animali: in questo qua non ce n’è traccia, né in una lingua né nell’altra, quindi addio al barlume di struttura che avevo intravisto nei due precedenti. Pazienza.
In compenso, la ragione di questo titolo, come nel secondo episodio, si afferra ben presto: è la citazione di un verso di una canzone, tema che accompagnerà il libro intero, sia all’interno del testo sia in apertura dei vari capitoli, tutti inaugurati da qualche stralcio dall’attinenza più o meno immediata al suo contenuto, com’era stato ne Il baco da seta con le frasi tratte da libri. Tra l’altro, l’edizione italiana riporta i testi in inglese, ma contiene una lunghissima appendice che riporta prima titoli, autori e copyright di tutto quanto, e infine le traduzioni in bella fila. Comodo, per chi ha poca dimestichezza con la lingua originale.
Le canzoni citate sono talmente tante, e (quasi tutte) talmente unitarie nel criterio di scelta, da fornire quasi una colonna sonora alla lettura: io finora ne ho ascoltata una soltanto, la prima e forse più importante, e mi sono fermata lì perché il gruppo che ne canta la maggior parte, i Blue Öyster Cult, è lontano anni luce dal mio genere, ma alcuni titoli e testi sono interessanti, per quanto decisamente allucinati, e potrei provarne qualcun’altra a breve.
(Vi lascio qui il link a quella che ho già sentito, Mistress of the Salmon Salt. Invece di stare a guardare l’immagine fissa per cinque minuti e qualcosa, leggete i commenti, vi strapperanno un sorriso. Non li ho guardati con attenzione, ma mi sembrano pieni di cultori della band che fanno come da copione i superiori, stile: “Siete qui solo per il romanzo, poser che non siete altro! Noi sì che ascoltiamo vera musica!”, altri che invece sembrano contenti che l’autrice abbia creato un enorme bacino di potenziali nuovi fan, e gente che ammette apertamente di essere arrivata al video grazie al libro.)
Ancora due parole sulla struttura dei capitoli, che ci porteranno ben presto ad affondare i denti… ehm, okay, metafora sbagliata e vedrete subito il perché, che schifo… nel contenuto. Prestate sempre attenzione a dove si trova il pezzo di canzone. Se il capitolo che avete davanti al naso è soltanto numerato e lo riporta prima del testo, elegantemente allineato a destra, tranquilli: si parlerà di Robin e di Strike dal solito punto di vista che già conoscete. Se invece oltre al numero ha anche un titolo suo, sempre tratto da una canzone, e nessuna citazione in apertura, tremate: si tratta di capitoli anomali, di solito brevi, scritti dal punto di vista dell’assassino. Sono pochini, tredici (il numero avrà qualche significato? Li ho contati or ora e non mi ero resa conto prima di quanti fossero…) su sessantadue, e vengono a cadenza irregolare, ma più che farmi venire i brividi mi mettono addosso la nausea. Sarà che ultimamente si è fatto un gran parlare di femminicidio e lo Squartatore di Shacklewell (cominciate a capire il motivo del mio disgusto, vero?) privilegia le donne, sarà che la prima delle sue vittime, un vecchio caso irrisolto, è una delle moltissime italiane a Londra e porta il mio nome, cosa che mi ha fatto un’impressione fortissima, ma mentre li leggevo ero divisa a metà tra l’impulso di levarmi un immaginario cappello di fronte all’abilità dell’autrice di calarsi nei panni della mentalità malata del killer e quello di posare il libro e correre in bagno a vomitare.
E dunque? Un giallo completamente sradicato, in cui l’identità del criminale di turno già si sa, visto e considerato che uno di quei capitoli è addirittura il primo? Il bello è proprio questo: no! È un giallo atipico per altri motivi, ma non questo. La suspense resta intatta perché, attraverso qualche salto mortale linguistico, i non troppo magnifici tredici sono scritti in modo da indirizzare ora verso l’uno, ora verso l’altro dei tre grandi sospettati, senza dare a intendere di chi si tratti.
Veniamo al dunque (ho quasi scritto “al sodo” ma non ce la faccio): sospettati di che? Di aver non solo ammazzato prima una e poi diverse ragazze, ma di aver tagliato una gamba a uno dei cadaveri, esattamente nel punto in cui quella di Strike era stata amputata dopo la ferita di guerra, e averla recapitata in un pacco, come se nulla fosse, all’indirizzo dell’agenzia di investigazione, intestata – attenzione, popolazione! – non al detective, ma a Robin, che come si evince dai capitoli titolati, l’assassino ha puntato come prossima vittima.
E questo è un altro dei modi in cui La via del male si rende un giallo atipico. Ormai, dopo due episodi, ci eravamo abituati alla struttura abbastanza classica dell’avventura un po’ alla Sherlock, in cui arriva il cliente, espone il problema, il caso si apre, si sviluppa, si chiude, arrivederci e tanti saluti e baci, il tutto con le vite private di Robin e Strike che vanno avanti sullo sfondo, ma senza che i due si lascino coinvolgere troppo dalla faccenda a livello personale. Qui invece la questione è personalissima, i protagonisti sono ancora più direttamente in pericolo del solito, e non solo gli stereotipi “assistente del detective” e “povera vittima braccata” si fondono in un personaggio unico, ma Strike è certo che chi ha spedito il macabro regalo sia una di tre persone ben precise provenienti dal suo burrascoso passato di prima e durante la carriera militare: o il terribile patrigno Jeff Whittaker, o uno di due commilitoni con dei conti in sospeso con lui, Noel Brockbank e Donald Laing.
E l’atipicità continua, perché questo stato di cose fa sì che ogni scusa sia buona per scoprire un nuovo pezzo dei finora fumosi trascorsi di entrambi i nostri eroi, Strike in particolare ma anche Robin, lasciandoci con un quadro molto più completo di prima di chi siano e del perché facciano quello che fanno. Ottimo, ma quasi distraente: la proporzione tra il presente della storia (e che presente: cronologicamente definitissimo, incastrato tra arcinoti fatti di cronaca quali il matrimonio tra William e Kate e la morte di bin Laden) e i continui flashback dà a questi ultimi molto più spazio del consueto, aiutando sì a tracciare profili uno peggiore dell’altro dei tre potenziali Jack del nostro secolo (e il paragone non è mio, lo trovate nel libro e non è affatto casuale), ma facendo qui e là desiderare di tornare al filo principale.
Quel che invece mi è piaciuto molto di questa scelta insolita è che ci dà un’ulteriore conferma che nessuno dei due è perfetto: sia a livello d’indagine che di vita privata, a mio modestissimo parere, entrambi fanno una notevole collezione di cavolate in questo libro, lasciandoci alla fine in una situazione personale e professionale da cui, onestamente, non so proprio come la zia Jo riuscirà a farli uscire. Il finale dell’episodio non mi suona neanche lontanamente come un finale di serie, ma non riesco davvero a immaginare come si potrà tornare a un qualcosa di anche solo vagamente somigliante al vecchio status quo dopo gli avvenimenti de La via del male. Vorrà dire che aspetteremo con ansia. Anzi, sono talmente imperfetti che qui e là ho intrattenuto l’idea che gli antichi risentimenti stessero compromettendo l’abilità investigativa di Strike e lo Squartatore di Shacklewell potesse anche non essere nessuno dei tre. Se vi dico che come sempre avevo torto marcio è uno spoiler già troppo grosso?
Parliamo ora, invece, di quel poco di tipico che resta nel libro: al solito, nessuna paura nel mettere in bocca ai personaggi un numero impressionante di “porca troia” e similari, le vecchie autocensure dell’innocente J.K. Rowling gettate dalla finestra in favore del linguaggio duro e grezzo dell’alter ego Robert Galbraith. E forse, anche se il mondo intero sa che sono la stessa persona, è proprio questo nascondersi dietro il velo ormai piuttosto inutile di un altro nome che la fa sentire un po’ più libera. Citando direttamente dai ringraziamenti finali: “Non ricordo di essermi mai divertita tanto a scrivere un libro come La via del male. Ed è strano, non soltanto per il suo tema cruento, ma anche perché raramente sono stata impegnata come negli ultimi dodici mesi, durante i quali sono dovuta passare da un progetto all’altro, che non è il mio modo preferito di lavorare. Nondimeno, ho sempre considerato Robert Galbraith il mio personale parco giochi, e anche stavolta non mi ha delusa.” (p. 585)
Dunque, infiliamoci noi il cappello da cacciatore di cervi e vediamo di analizzare queste parole e cavarne il più possibile. Il “passare da un progetto all’altro”, se siete Potterhead quanto me, sapete tutti a cosa si riferisce: e la sceneggiatura di Animali Fantastici, e il lavoro a teatro per The Cursed Child… ce n’è per amici e parenti, è vero, e tanto di cappello per aver gestito i diversi impegni come le palline di un giocoliere. Ma “divertita”? “Parco giochi”? Santo cielo benedetto! Se non ammettesse lei stessa che è strano, mi preoccuperei. È proprio vero che tutti i migliori sono un po’ matti. Stiamo parlando di un serial killer con la mania di mutilare le sue vittime per farne trofei, l’indagine trascina la nostra coppia in lungo e in largo per le Isole Britanniche tra gli alti dei paesini pittoreschi (tutti o quasi visitati davvero per ricavarne le sue solite vivide descrizioni) e i bassi del disagio sociale, la droga, la prostituzione e la pedofilia, anche solo le ricerche su Google di Robin la portano in un mondo a metà tra il sordido e il penoso che nemmeno sapevo esistesse (vi lascio qui solo qualche parola chiave da provare a cercare a vostra volta: acrotomofilia, Body Integrity Identity Disorder, transabilità), e questa dice di essersi divertita? Accidenti. Devo un po’ rivedere l’immagine idealizzata che avevo di lei. Capisco che possa essere in un certo senso liberatorio, allo stesso modo in cui certi attori dicono che sia terapeutico interpretare con dedizione i grandi cattivi del teatro, ma – l’ho detto e lo ripeto – la sua capacità di calarsi in una mente in cui chiaramente qualcosa non va ha dell’incredibile. Ce n’eravamo già un po’ accorti ai tempi del maghetto con Bellatrix Lestrange, ma se dovessi dire chi sia messo peggio tra la strega portata sullo schermo da Helena Bonham-Carter e il colpevole di turno de La via del male, sarebbe una bella lotta.
Altro tratto che grazie al cielo non destabilizza troppo, e che metto in chiusura perché a questo giro non c’è molto da dire al riguardo: i nomi. Se non me ne sono sfuggiti clamorosamente alcuni, in questo episodio l’autrice rinuncia quasi del tutto ai nomi parlanti, se non per il fatto, spiegato esplicitamente, che uno degli indiziati, Noel Brockbank, e la sua gemella Holly si chiamano così perché nati il giorno di Natale (“holly” vuol dire “agrifoglio”, se già non lo sapevate grazie al testo della famosa carola natalizia Deck the Halls).
In compenso, la teoria dei pennuti resiste. Forse sta esalando gli ultimi respiri, ma è viva, almeno quella. Un nome di uccello, uno soltanto, come l’ultima volta, è riuscita a infilarlo, anche se è assai probabilmente uno pseudonimo ed è destinato a un personaggio d’importanza che dire secondaria è già generoso: Raven, per gli amici “corvo”.


Ma quel che mi è piaciuto di più in questa tornata di acrobazie onomastiche è che la scelta di certi nomi (non vi dico quali, vediamo se anche voi avrete la stessa reazione che ho avuto io) induce a fare dei collegamenti forse un po’ traballanti, forse un po’ tanto improbabili, ma che danno davvero la sensazione di essere sulla buona strada verso il colpevole e fanno sentire intelligentissimi per circa cinque minuti… se poi l’impressione duri fino alla fine, questa è un’altra storia.
Insomma, preparatevi a restare col fiato sospeso, letteralmente: com’è, come non è, Robin riesce ad avere scontri frontali di varia natura con tutti e tre i potenziali assassini, e l’ultima battuta pronunciata ad alta voce in tutto il libro è sua… coriacea, la ragazza.
Valutazione complessiva:

giovedì 25 febbraio 2016

Lo strano caso dei fiori "petalosi"

La lingua è viva, anzi vivissima!


Salve, gente!

Avete sentito l’ultima? Potrebbe esserci una nuova parola in arrivo di cui il nostro panda avrà sicuramente voglia di occuparsi.

Se avete seguito un po’ il tam-tam che si è creato sui social network, non avrete di certo bisogno di questo breve riassunto della faccenda: un bambino di otto anni, nello svolgere un esercizio sugli aggettivi, ne ha prodotto uno che sul dizionario non esiste, ma che – ohibò! – ha senso, e la maestra non solo ha scritto all’Accademia della Crusca, ma ha pure ottenuto una celere risposta.

E che risposta! Non solo per il tono, che per fortuna è calibrato sul livello del piccolino e non su quello di un linguista laureato con tutti gli onori, ma proprio per il contenuto. Scommetto che se dico “Accademia della Crusca” molti di voi penseranno a una manica di bacchettoni antiquati con la matita rossa e blu da maestrini in resta, e invece a quanto pare non è così. Ci sono, come vedremo, legioni di commentatori che pensano che l’istituzione sia caduta in basso con questa recente mossa, ma rimane il fatto che chi ha scritto a Matteo non dice nemmeno una volta che questa benedetta parola “petaloso” sia inaccettabile. E se ci pensiamo bene, il ragionamento non fa una grinza: di sicuro verranno in mente anche a voi infiniti altri esempi, oltre a quelli in foto, di parole costruite esattamente in questo modo.

E proprio qui, forse forse, sta l’inghippo. Intendiamoci: tanto di cappello alla maestra che ha deciso di non umiliare l’alunno per il suo errore e premiarne invece la creatività di fronte alla consegna, o le capacità di problem solving, se vogliamo farci belli (o brutti?) con uno di quei termini inglesi che fanno tanto moderno e ai signori accademici fanno venire la pelle d’oca. Sì, l’ho usato apposta. No, di solito non parlo né scrivo così. Ma l’impresa di Matteo, se vogliamo essere brutalmente sinceri, non è straordinaria come il popolo dei social vuole farla sembrare. Inventare parole che non esistono a partire da meccanismi molto produttivi, come un nuovo aggettivo in “-oso” oggi o un nuovo verbo in “-are” domani, è una cosa che credo abbiamo fatto non dico tutti, ma tanti. Creare un termine dal nulla laddove la parola o frase giusta non viene in mente, per scarsa padronanza del lessico o non so quale altro motivo, o regolarizzare parole ostiche dal comportamento imprevedibile per chi non abbia ancora fatto molti studi formali di grammatica, sono fatti naturalissimi che fanno parte dell’apprendimento di qualunque lingua, italiano compreso. Chissà quante simili stranezze avrò detto io stessa da piccola! Se me le ricordassi, sarei ben felice di farne una lista: chissà che alla Crusca non ne possa piacere qualcuna. E quante, confesso, ne dico ancora! Queste, però, non voglio elencarle, perché non vi servirebbero a niente, a meno che non vi troviate a dover descrivere un certo gattone un po’ scontroso con una macchia sul nasino. A proposito, posso dire che Leo è “macchioso”? Posso? È una parola tanto carina…

Diamo ora un’occhiata ai due estremi opposti che si sono generati, com’era ovvio, nella fiumana di reazioni su Facebook:


(Lasciamo perdere i miei pietosi tentativi di censurare l’ancora visibilissimo turpiloquio e andiamo avanti, OK? Grazie, troppo buoni.)

E dunque: “petaloso” sì o “petaloso” no? Francamente, è presto per dirlo, e anche la campagna su Internet per aiutare il piccolo Matteo a diffondere la sua parola non so se basterà per farla inserire nella prossima edizione di qualche vocabolario autorevole. Ci avete provato, gente, e probabilmente una gran bella spinta verso l’approvazione l’avete anche data, ma non penso che sia ancora sufficiente. O forse sì, chi può dirlo? Non è compito mio né di tanti studiosi più validi di me avere la sfera di cristallo.

Io questa parola non riesco a farmela piacere tanto, ma da studentessa che con queste cose ha a che fare ogni giorno mi rendo conto che si tratta, né più né meno, di un effetto simile a quello che può fare la musica della nostra generazione ai nonni: “Non è musica, è rumore!”. Se fossi abituata a sentirla, mi apparirebbe perfetta.

C’è anche chi dice che “non se ne sentiva il bisogno”, che è un modo brutto per dire ciò che fino a ieri si poteva esprimere con qualche paroletta in più, ma più elegantemente, per esempio “con tanti petali”, “ricco di petali”. E qui casca l’asino (no, non sto dando dell’asino a nessuno in particolare): tu che commenti puoi non sentirne il bisogno, ma ne aveva bisogno Matteo in quel momento.


Ecco infatti l’esercizio originale che ha provocato tutto questo. La maestra chiedeva due aggettivi per ogni nome: singole parole che rientrano in quella categoria grammaticale, non locuzioni formate da più di una. Matteo, poveretto, avrà avuto voglia di esprimere il concetto “con tanti petali” per descrivere il fiore che immaginava, ma si sarà reso conto, presumo, che scrivere “con tanti petali” avrebbe violato la regola data dalla consegna, e così si è arrangiato. Sì, se ne sentiva il bisogno. O almeno, una persona l’ha sentito, e la necessità aguzza l’ingegno, per dire la banalità del giorno.

È una parola valida, non si discute. Qualunque manuale lo confermerebbe. Se poi abbia anche il giusto potenziale per diventare parte integrante della nostra lingua, non saprei dire. Ma era proprio necessario coinvolgere l’Accademia e farne un caso nazionale? Sinceramente, trovo il comportamento di questa maestra un po’ estremo. Encomiabile, ma estremo. È una cosa meravigliosa che abbia deciso di non mettere Matteo in imbarazzo per il modo poco ortodosso in cui se l’è cavata, proteggendo la sua delicatissima autostima di bambino, ma quel che ha ottenuto è stato soltanto di metterlo sotto i riflettori, facendolo finire su Internet e in TV, e questo, per la soluzione di fatto ancora errata, per quanto simpatica, tenera e divertente, di un esercizio d’italiano, è davvero troppo.

Con questo non intendo dire che non sappia fare l’insegnante e che dovrebbero toglierle la cattedra: se notate, l’ha segnato comunque come errore, quindi non era sua intenzione premiare una risposta sbagliata. In effetti, se guardo il suo metodo, sento nascere in me qualcosa che non saprei definire altrimenti che invidia. C’è una certa poesia nell’espressione che ha usato, “errore bello”. Magari avessi avuto io delle maestre “poetesse” così! Se ripenso alla mia esperienza delle elementari, mi viene in mente solo un clima in cui una cosa come “errore bello” non era soltanto un ossimoro, ma proprio un adynaton, parolone greco che vuol dire “impossibile”, una cosa che non sta né in cielo né in terra. Gli errori belli nella mia classe non esistevano, una parola inventata sarebbe stata un errore e basta, e non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di scrivere “errore brutto”, perché erano brutti tutti, sempre. Altro che Crusca! Magari sono ricordi distorti dal tempo, ma io credo sinceramente che nessuna delle mie insegnanti avrebbe fatto una cosa simile.

Né, ripeto, penso che scrivere all’Accademia sia stata la soluzione corretta: se è un’insegnante d’italiano, voglio sperare che abbia le competenze per spiegare lei stessa, vocabolario alla mano, esattamente gli stessi concetti, in fondo semplici, espressi nella lettera della Crusca. Comprendo benissimo che il tempo per finire i programmi ministeriali sia sempre poco, ma sarebbe stato forse meglio fermarsi un momento e prendersi quanto necessario (dieci minuti? Mezz’ora?) per dire: “Cari bambini, il vostro compagno Matteo ha scritto un aggettivo che sul dizionario non c’è, ma sapevate che un giorno, forse, potrebbe esserci? Che ne dite di scoprire insieme come nasce una parola nuova?”. E via con un’appassionante, imprevista lezioncina alternativa sui neologismi, che magari avrebbe sottratto un po’ di prezioso spazio allo studio degli aggettivi, ma che la classe non avrebbe mai dimenticato. Niente Crusca, niente hashtag, niente telecamere, ma solo un bellissimo ricordo.


E allora? Abbastanza petalose per i vostri gusti?