Un giallo non proprio... canarino
Ai pochi lettori che mi saranno rimasti dopo tanto
ingiustificabile silenzio, salve!
Oggi torniamo, come si conviene a un blog con questo nome, a
parlare di libri.
Sono riuscita finalmente a mettere le mani sulla traduzione
italiana, non proprio fresca di stampa ma poco ci manca, del terzo episodio
delle rocambolesche avventure londinesi e non solo dei miei amati Cormoran
Strike e Robin Ellacott, La via del male
(Career of Evil), e naturalmente
eccomi qui a recensirlo: ormai è un punto d’onore, se il blog sarà ancora vivo
e vegeto quando la serie finirà prometto che vi troverete la collezione intera.
Ho inaugurato le mie recensioni col primo e forse irrazionalmente mi sono
convinta che questi benedetti gialli mi portino fortuna.
Parliamo innanzitutto del titolo, che fa
subito crollare miseramente come un castello di carte la mia vecchia teoria dei
nomi di animali: in questo qua non ce n’è traccia, né in una lingua né nell’altra,
quindi addio al barlume di struttura che avevo intravisto nei due precedenti.
Pazienza.
In compenso, la ragione di questo titolo, come nel secondo
episodio, si afferra ben presto: è la citazione di un verso di una canzone,
tema che accompagnerà il libro intero, sia all’interno del testo sia in
apertura dei vari capitoli, tutti inaugurati da qualche stralcio dall’attinenza
più o meno immediata al suo contenuto, com’era stato ne Il baco da seta con le frasi tratte da libri. Tra l’altro, l’edizione
italiana riporta i testi in inglese, ma contiene una lunghissima appendice che
riporta prima titoli, autori e copyright di tutto quanto, e infine le
traduzioni in bella fila. Comodo, per chi ha poca dimestichezza con la lingua
originale.
Le canzoni citate sono talmente tante, e (quasi tutte)
talmente unitarie nel criterio di scelta, da fornire quasi una colonna sonora
alla lettura: io finora ne ho ascoltata una soltanto, la prima e forse più
importante, e mi sono fermata lì perché il gruppo che ne canta la maggior
parte, i Blue Öyster Cult, è lontano anni luce dal mio genere, ma alcuni titoli
e testi sono interessanti, per quanto decisamente allucinati, e potrei provarne
qualcun’altra a breve.
(Vi lascio qui il link a quella che ho già sentito, Mistress of the Salmon Salt.
Invece di stare a guardare l’immagine fissa per cinque minuti e qualcosa,
leggete i commenti, vi strapperanno un sorriso. Non li ho guardati con
attenzione, ma mi sembrano pieni di cultori della band che fanno come da copione
i superiori, stile: “Siete qui solo per il romanzo, poser che non siete altro!
Noi sì che ascoltiamo vera musica!”,
altri che invece sembrano contenti che l’autrice abbia creato un enorme bacino
di potenziali nuovi fan, e gente che ammette apertamente di essere arrivata al
video grazie al libro.)
Ancora due parole sulla struttura dei capitoli, che ci
porteranno ben presto ad affondare i denti… ehm, okay, metafora sbagliata e
vedrete subito il perché, che schifo… nel contenuto. Prestate sempre attenzione
a dove si trova il pezzo di canzone.
Se il capitolo che avete davanti al naso è soltanto numerato e lo riporta prima
del testo, elegantemente allineato a destra, tranquilli: si parlerà di Robin e
di Strike dal solito punto di vista che già conoscete. Se invece oltre al
numero ha anche un titolo suo, sempre tratto da una canzone, e nessuna
citazione in apertura, tremate: si tratta di capitoli anomali, di solito brevi,
scritti dal punto di vista dell’assassino.
Sono pochini, tredici (il numero avrà qualche significato? Li ho contati or ora
e non mi ero resa conto prima di quanti fossero…) su sessantadue, e vengono a
cadenza irregolare, ma più che farmi venire i brividi mi mettono addosso la
nausea. Sarà che ultimamente si è fatto un gran parlare di femminicidio e lo
Squartatore di Shacklewell (cominciate a capire il motivo del mio disgusto,
vero?) privilegia le donne, sarà che la prima delle sue vittime, un vecchio
caso irrisolto, è una delle moltissime italiane a Londra e porta il mio nome,
cosa che mi ha fatto un’impressione fortissima, ma mentre li leggevo ero divisa
a metà tra l’impulso di levarmi un immaginario cappello di fronte all’abilità
dell’autrice di calarsi nei panni della mentalità malata del killer e quello di
posare il libro e correre in bagno a vomitare.
E dunque? Un giallo completamente sradicato, in cui l’identità
del criminale di turno già si sa, visto e considerato che uno di quei capitoli
è addirittura il primo? Il bello è proprio questo: no! È un giallo atipico per
altri motivi, ma non questo. La suspense resta intatta perché, attraverso
qualche salto mortale linguistico, i non troppo magnifici tredici sono scritti
in modo da indirizzare ora verso l’uno, ora verso l’altro dei tre grandi
sospettati, senza dare a intendere di chi si tratti.
Veniamo al dunque (ho quasi scritto “al sodo” ma non ce la
faccio): sospettati di che? Di aver
non solo ammazzato prima una e poi diverse ragazze, ma di aver tagliato una
gamba a uno dei cadaveri, esattamente nel punto in cui quella di Strike era
stata amputata dopo la ferita di guerra, e averla recapitata in un pacco, come
se nulla fosse, all’indirizzo dell’agenzia di investigazione, intestata –
attenzione, popolazione! – non al detective, ma a Robin, che come si evince dai
capitoli titolati, l’assassino ha puntato come prossima vittima.
E questo è un altro dei modi in cui La via del male si rende un giallo atipico. Ormai, dopo due
episodi, ci eravamo abituati alla struttura abbastanza classica dell’avventura
un po’ alla Sherlock, in cui arriva il cliente, espone il problema, il caso si
apre, si sviluppa, si chiude, arrivederci e tanti saluti e baci, il tutto con
le vite private di Robin e Strike che vanno avanti sullo sfondo, ma senza che i
due si lascino coinvolgere troppo dalla faccenda a livello personale. Qui
invece la questione è personalissima, i protagonisti sono ancora più
direttamente in pericolo del solito, e non solo gli stereotipi “assistente del
detective” e “povera vittima braccata” si fondono in un personaggio unico, ma
Strike è certo che chi ha spedito il macabro regalo sia una di tre persone ben
precise provenienti dal suo burrascoso passato di prima e durante la carriera
militare: o il terribile patrigno Jeff Whittaker, o uno di due commilitoni con
dei conti in sospeso con lui, Noel Brockbank e Donald Laing.
E l’atipicità continua, perché questo stato di cose fa sì
che ogni scusa sia buona per scoprire un nuovo pezzo dei finora fumosi
trascorsi di entrambi i nostri eroi, Strike in particolare ma anche Robin,
lasciandoci con un quadro molto più completo di prima di chi siano e del perché
facciano quello che fanno. Ottimo, ma quasi distraente: la proporzione tra il
presente della storia (e che presente: cronologicamente definitissimo,
incastrato tra arcinoti fatti di cronaca quali il matrimonio tra William e Kate
e la morte di bin Laden) e i continui flashback dà a questi ultimi molto più
spazio del consueto, aiutando sì a tracciare profili uno peggiore dell’altro
dei tre potenziali Jack del nostro secolo (e il paragone non è mio, lo trovate
nel libro e non è affatto casuale), ma facendo qui e là desiderare di tornare
al filo principale.
Quel che invece mi è piaciuto molto di questa scelta
insolita è che ci dà un’ulteriore conferma che nessuno dei due è perfetto: sia
a livello d’indagine che di vita privata, a mio modestissimo parere, entrambi
fanno una notevole collezione di cavolate in questo libro, lasciandoci alla
fine in una situazione personale e professionale da cui, onestamente, non so proprio
come la zia Jo riuscirà a farli uscire. Il finale dell’episodio non mi suona
neanche lontanamente come un finale di serie, ma non riesco davvero a
immaginare come si potrà tornare a un qualcosa di anche solo vagamente
somigliante al vecchio status quo
dopo gli avvenimenti de La via del male.
Vorrà dire che aspetteremo con ansia. Anzi, sono talmente imperfetti che qui e
là ho intrattenuto l’idea che gli antichi risentimenti stessero compromettendo
l’abilità investigativa di Strike e lo Squartatore di Shacklewell potesse anche
non essere nessuno dei tre. Se vi dico che come sempre avevo torto marcio è uno
spoiler già troppo grosso?
Parliamo ora, invece, di quel poco di tipico che resta nel
libro: al solito, nessuna paura nel mettere in bocca ai personaggi un numero
impressionante di “porca troia” e similari, le vecchie autocensure dell’innocente
J.K. Rowling gettate dalla finestra in favore del linguaggio duro e grezzo dell’alter ego Robert Galbraith. E forse,
anche se il mondo intero sa che sono la stessa persona, è proprio questo
nascondersi dietro il velo ormai piuttosto inutile di un altro nome che la fa
sentire un po’ più libera. Citando direttamente dai ringraziamenti finali: “Non
ricordo di essermi mai divertita tanto a scrivere un libro come La via del male. Ed è strano, non
soltanto per il suo tema cruento, ma anche perché raramente sono stata
impegnata come negli ultimi dodici mesi, durante i quali sono dovuta passare da
un progetto all’altro, che non è il mio modo preferito di lavorare. Nondimeno,
ho sempre considerato Robert Galbraith il mio personale parco giochi, e anche
stavolta non mi ha delusa.” (p. 585)
Dunque, infiliamoci noi il cappello da cacciatore di cervi e
vediamo di analizzare queste parole e cavarne il più possibile. Il “passare da
un progetto all’altro”, se siete Potterhead quanto me, sapete tutti a cosa si
riferisce: e la sceneggiatura di Animali
Fantastici, e il lavoro a teatro per The
Cursed Child… ce n’è per amici e parenti, è vero, e tanto di cappello per
aver gestito i diversi impegni come le palline di un giocoliere. Ma “divertita”?
“Parco giochi”? Santo cielo benedetto! Se non ammettesse lei stessa che è
strano, mi preoccuperei. È proprio vero che tutti i migliori sono un po’ matti.
Stiamo parlando di un serial killer con la mania di mutilare le sue vittime per
farne trofei, l’indagine trascina la nostra coppia in lungo e in largo per le
Isole Britanniche tra gli alti dei paesini pittoreschi (tutti o quasi visitati
davvero per ricavarne le sue solite vivide descrizioni) e i bassi del disagio
sociale, la droga, la prostituzione e la pedofilia, anche solo le ricerche su
Google di Robin la portano in un mondo a metà tra il sordido e il penoso che
nemmeno sapevo esistesse (vi lascio qui solo qualche parola chiave da provare a
cercare a vostra volta: acrotomofilia, Body Integrity Identity Disorder,
transabilità), e questa dice di essersi divertita? Accidenti. Devo un po’
rivedere l’immagine idealizzata che avevo di lei. Capisco che possa essere in
un certo senso liberatorio, allo stesso modo in cui certi attori dicono che sia
terapeutico interpretare con dedizione i grandi cattivi del teatro, ma – l’ho
detto e lo ripeto – la sua capacità di calarsi in una mente in cui chiaramente
qualcosa non va ha dell’incredibile. Ce n’eravamo già un po’ accorti ai tempi
del maghetto con Bellatrix Lestrange, ma se dovessi dire chi sia messo peggio
tra la strega portata sullo schermo da Helena Bonham-Carter e il colpevole di
turno de La via del male, sarebbe una
bella lotta.
Altro tratto che grazie al cielo non destabilizza troppo, e
che metto in chiusura perché a questo giro non c’è molto da dire al riguardo: i
nomi. Se non me ne sono sfuggiti clamorosamente alcuni, in questo episodio l’autrice
rinuncia quasi del tutto ai nomi parlanti, se non per il fatto, spiegato
esplicitamente, che uno degli indiziati, Noel Brockbank, e la sua gemella Holly
si chiamano così perché nati il giorno di Natale (“holly” vuol dire “agrifoglio”,
se già non lo sapevate grazie al testo della famosa carola natalizia Deck the Halls).
In compenso, la teoria dei pennuti resiste. Forse sta
esalando gli ultimi respiri, ma è viva, almeno quella. Un nome di uccello, uno
soltanto, come l’ultima volta, è riuscita a infilarlo, anche se è assai
probabilmente uno pseudonimo ed è destinato a un personaggio d’importanza che
dire secondaria è già generoso: Raven, per gli amici “corvo”.
Ma quel che mi è piaciuto di più in questa tornata di
acrobazie onomastiche è che la scelta di certi nomi (non vi dico quali, vediamo
se anche voi avrete la stessa reazione che ho avuto io) induce a fare dei
collegamenti forse un po’ traballanti, forse un po’ tanto improbabili, ma che
danno davvero la sensazione di essere sulla buona strada verso il colpevole e
fanno sentire intelligentissimi per circa cinque minuti… se poi l’impressione
duri fino alla fine, questa è un’altra storia.
Insomma, preparatevi a restare col fiato sospeso,
letteralmente: com’è, come non è, Robin riesce ad avere scontri frontali di
varia natura con tutti e tre i potenziali assassini, e l’ultima battuta
pronunciata ad alta voce in tutto il libro è sua… coriacea, la ragazza.
Valutazione complessiva: