sabato 15 marzo 2014

In sala lettura: "Il Richiamo del Cuculo", Robert Galbraith

... O forse no?

Lettori e lettrici, in un blog che si chiama “Biblioteca” non poteva certo mancare uno spazio in cui parlare semplicemente di libri, giusto?
È proprio questo che faremo, partendo da una mia recente lettura, Il Richiamo del Cuculo, firmato Robert Galbraith.
E già su questa prima frase all'apparenza così basilare si potrebbe discutere all'infinito, perché come ormai saprete tutti, altro non è che uno pseudonimo dietro il quale si nasconde nientepopodimeno che J.K. Rowling, già famosa per la saga di Harry Potter e per Il seggio vacante.
Ebbene, la nostra Jo (perdonatemi, faccio parte della generazione di Harry, per noi è normalissimo prenderci confidenza e chiamarla pure “zia” quando capita) cambia di nuovo genere e si dà al romanzo giallo, inaugurando la serie dedicata a Cormoran Strike.
Cormoran è lo Sherlock Holmes della situazione, e in effetti, a ben vedere, di somiglianze con il detective del 221B di Baker Street ne ha più di una: in entrambi i casi stiamo parlando di un investigatore privato con base a Londra, città che conosce molto bene, e una figura di fedele assistente alle calcagna.
Tuttavia, “Robert” astutamente evita di creare una replica perfetta della dinamica Holmes/Watson con tutta una serie di espedienti, il primo e il più semplice dei quali è di cambiare sesso all'aiutante: a dare una mano al nostro Strike, infatti, è la segretaria temporanea Robin Ellacott.
Ma come, “temporanea”? Allora non la rivedremo più nel secondo episodio, al momento conosciuto solo col titolo originale The Silkworm, col quale dovrebbe uscire a giugno? Non sarà mica che Strike cambierà un'assistente per ogni volume, neanche fossero insegnanti di Difesa contro le Arti Oscure? Oh, credetemi, l'ho pensato più volte, ma pare che il rischio sia stato scongiurato. Come e perché, preferisco che lo scopriate leggendo il libro. Essendo un giallo, mi impegnerò doppiamente a tenere questo post al sicuro dall'altissimo rischio spoiler.
Ancora due parole sui nostri protagonisti. “Robert”, a quanto pare, non riesce proprio a resistere alla tentazione di rappresentare (stavolta senza magia) una contrapposizione tra due mondi, e stavolta lo fa tratteggiando la vita di Robin, che pare divisa in due grossi compartimenti stagni: da una parte, la nostra eroina sta vivendo un idillio da cartolina con il rispettabilissimo Matthew, che con sua somma gioia le ha appena chiesto di sposarlo, e dall'altra sogna un'esistenza piena d'azione che il lavoro con Strike sembra in grado di garantirle e che invece il fidanzato, con un freddo atteggiamento da contabile che ha non poco in comune con la mentalità ristretta che abbiamo già visto in Vernon Dursley e in molti abitanti di Pagford, l'ambientazione principale del Seggio, disapprova.
Strike, dal canto suo, si presenta come un mistero ancora più grosso di quello intorno a cui ruota la storia, e con un solo episodio all'attivo siamo ancora ben lontani dal poter assemblare tutto il puzzle del suo non facile passato. Se la vita sentimentale di Robin è al suo picco più alto, quella di Cormoran, reduce da una rottura burrascosa che l'ha ridotto a dormire in ufficio finché non troverà una nuova sistemazione, è al più basso. Sappiamo qualcosa dei suoi trascorsi da militare, che ha plasmato la sua persona da ogni punto di vista: fisico, mentale e sociale. Senza il periodo trascorso in Afghanistan, Cormoran non avrebbe né il suo rigoroso metodo di lavoro, né i contatti nella polizia senza i quali la trama incontrerebbe un vicolo cieco, né – e l'ultima andava forse menzionata per prima – una protesi a sostituire parte di una gamba persa in un'esplosione. Qualche potteriano con cui mi è capitato di discuterne vede un po' di Hagrid nel suo fisico massiccio e nella sua natura in fondo semplice; il primo paragone a cui penso io, invece, è Alastor “Malocchio” Moody. Sappiamo anche che non ha avuto precisamente un'infanzia da sogno e che si trascina dietro la pesante eredità di essere il figlio illegittimo di un famoso cantante e di una groupie, ma di quella parte mancano ancora grossi pezzi.
Per stavolta, tuttavia, il legame pur tenue con il mondo scintillante dei ricchi e famosi gli torna comodo, perché come prima prova delle sue abilità investigative è chiamato a scoperchiare il caso che pareva già chiuso di una celebre modella, Lula Landry, caduta tre mesi prima dal balcone di un elegante appartamento di Mayfair. Il fratello adottivo di lei, John Bristow, fa quasi irruzione nell'ufficio di Strike, proclamandosi convinto che si sia trattato di omicidio e non, come aveva dichiarato la polizia, di suicidio. Le prove iniziali che porta sono poche e confuse, e tra di esse la regina è una sua personale ossessione con una presenza sospetta nel girato delle telecamere di sicurezza del quartiere, soprannominata nei suoi appunti il “Corridore”.
Da questi sparuti pezzetti, Strike riesce piano piano, tra la notevole abilità di Robin con Google e una serie di estenuanti interviste a chiunque abbia avuto una pur minima connessione con Lula, a tessere un arazzo di un'infinità di sfumature diverse che lo porta dalla miseria di un centro di recupero ai flash di un servizio fotografico, per poi giungere... questo non ve lo dico. Preparatevi soltanto a essere più sorpresi di quando il professor Raptor si tolse il turbante per la prima volta.
Non so se si tratti di una particolare abilità persuasiva da parte della scrittrice o della mia quasi totale inesperienza nel genere, ma la mia impressione è stata quella di un'indagine che procede a meraviglia, senza buchi o incongruenze immediatamente rilevabili, senza rivelazioni troppo grandi fatte troppo presto, con il quadro che si costruiva lentamente da sé attraverso le contraddizioni, alcune aperte e altre più sottili, tra le diverse versioni degli stessi fatti. L'unica nota vagamente stonata è che certi dettagli riportati, per essere riferiti a eventi di tre mesi prima, sono talmente minuti da far vergognare Pico della Mirandola: qui e là pare di trovarsi di fronte a uomini-computer che non perdono mai un colpo. Quasi certamente si tratta di un trucco per indurre il lettore a sospettare delle persone sbagliate spingendolo a ragionare pressappoco in questo modo: “Solo il colpevole potrebbe saperlo!”. Se è così, devo dire che funziona; altrimenti ho semplicemente sottovalutato le capacità della memoria umana.
Vedendomi così legata al mondo oltre la barriera del binario 9 e ¾, potreste pensare che il mio apprezzamento per Il Richiamo del Cuculo sia in realtà un'infatuazione per l'autrice che si cela dietro Robert Galbraith, e forse in parte è così, ma se conosceste i miei abituali gusti di lettura sapreste che c'è di più: di norma non digerisco i gialli, a parte qualche rara eccezione, e se decido che una storia ha troppo mistero e sangue per i miei gusti, nessun nome e nessun miracolo potranno farmi cambiare idea. Per entrare nella rosa dei pochi detective che amo, Strike deve proprio avere qualcosa che va oltre la persona che l'ha creato.
Che si tratti di J.K. Rowling si sente, ma solo col senno di poi: rispetto a quella che autocensurava le parolacce per adattarsi a un pubblico giovane, lasciandone soltanto una di particolare forza in sette libri (sapete tutti dov'è, vero?), sembra un'altra autrice, anche se in confronto all'impressionante numero di “fuck” e derivati che aveva fatto pronunciare a Krystal Weedon nel Seggio questo pare un manuale di bon-ton. Non so se me ne sarei resa conto leggendo il libro prima del grande scoop, ma ora che il mondo lo sa, molti particolari puntano verso di lei: le descrizioni di Londra, particolareggiate ma mai noiose, caratterizzate dall'intima conoscenza dei tempi necessari per percorrerla a piedi che può avere solo chi vi ha vissuto; la varietà di accenti e intercalari tipici di ogni personaggio che danno più colore alla caratterizzazione e che avrei pagato oro sonante per godermi in inglese anziché in traduzione, chiari omologhi delle lettere mangiucchiate nelle battute originali di Hagrid o di Stan Picchetto e del “Wotcher” con cui la Tonks edita dalla Bloomsbury saluta sempre Harry; la scelta di alcuni nomi, non proprio parlanti a livello di un Sirius Black o di un Remus Lupin, ma comunque evocativi.
Qualche appunto sui suddetti, nel bene e nel male: Jo sembra essere tornata in parte alla sua mania dell'onomastica a tema. Come la maggior parte dei Black avevano nomi che possiamo ritrovare nella mitologia o nelle stelle, per incontrare i nostri eroi stavolta bisogna aprire un manuale di ornitologia: già il titolo, che pare avere poco a che fare con la trama, fa riferimento al cuculo per un motivo ben preciso che vi lascio scoprire da soli.
Non è però l'unico uccello presente in queste pagine: “Robin” significa “pettirosso” e allo stesso Cormoran manca soltanto una lettera per avere il nome del pennuto a cui sicuramente avrete pensato tutti, il cormorano, che però si dice “cormorant”. 

Terminiamo l'excursus, purtroppo, con una nota negativa: per essere una che mette tanta attenzione nella scelta dei nomi per i suoi personaggi e per sé (“Robert Galbraith” è a sua volta una decisione assai ragionata che dovrebbe voler dire “famoso estraneo”), avrebbe potuto fare una mossa migliore nel caso della povera vittima. Leggendo il libro in italiano quest'impressione è assai attenuata, ma siccome so dell'abilità non comune della Rowling di divertirsi con la lingua inglese e di solito preferisco avere in mano ciò che è uscito direttamente dalla sua penna, il suono di “Lula Landry” continuava a fondersi nella mia mente formando la parola “laundry”, cioè “bucato”, di fatto distruggendo il dramma di certe situazioni con un effetto vagamente comico. Se un giorno scoprirò che, per qualche contorsione che mi è sfuggita, ciò era voluto, mi pentirò della mia critica e mi autoflagellerò quanto necessario, ma ne dubito fortemente.
Un'ultima nota a beneficio dei fan del maghetto: la Rowling ha dichiarato che avrebbe preferito mantenere il silenzio su Robert ancora per un po', ma – sarà che vedo riferimenti a Harry in qualunque cosa scritta da lei e anche altrove, sarà che cerco significati dove non ce ne sono – secondo me il libro è disseminato di indizi che dicono chi l'ha scritto davvero, come un giallo nel giallo. Tra le vie di Londra più nominate c'è Charing Cross Road, che guarda caso è quella dove si trova l'entrata a Diagon Alley, uno dei personaggi ha due gatti che si chiamano Rolf e Viktor (Viktor con tanto di K! Non sarebbe stato più immediato scriverlo con la C?), e un altro consiglia a Strike di lasciar perdere le indagini e darsi alla scrittura di romanzi fantasy. Forse, sotto sotto, voleva dircelo.
In conclusione: se vi piacciono i gialli, fate un tentativo. Non posso garantirvi che Strike finirà lassù, sullo stesso scaffale di Holmes e di Poirot, ma ne vale la pena. E se invece non vi piacciono, sacrificatevi: è possibilissimo che vi capiti quello che è successo a me e che Il Richiamo del Cuculo diventi la vostra classica eccezione che conferma la regola.
Valutazione complessiva:

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