Ovvero: istruzione e stereotipi di genere
Salve a tutti!
Sì, questo blog esiste ancora, quale inaspettata
rivelazione. Lo so, sparisco sempre e torno solo ogni tanto con qualche dubbio
guizzo d’ispirazione, ma spero che possiate accontentarvi e apprezzare lo
stesso quanto segue.
Oggi vorrei dire la mia su un argomento di quelli delicati,
di cui si parla all’infinito e sembra di non dire mai abbastanza: i tanto
vituperati stereotipi di genere che,
a sentire una certa corrente, danneggiano le future prospettive di carriera
delle ragazze fin dall’infanzia.
Perdonate l’inglese imperante: credo che il messaggio
passerebbe pure in aramaico, e comunque non è mai una cattiva idea fare un po’
di esercizio!
Le statistiche citate dagli innumerevoli articoli e video a
tema come questo possono cambiare un po’ a seconda di com’è stato fatto il
calcolo, ma il cuore dell’argomentazione è sempre il medesimo: da una certa età
in poi, molto prima di quanto ci si renda conto, le bambine perdono interesse
per i campi cosiddetti STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics)
perché convinte di essere meno intelligenti dei maschi, o comunque meno portate
per le discipline scientifiche.
Ora, io non voglio affermare né che sia vero né che sia falso
in generale. Voglio solo permettermi
di raccontare com’è stato per me, per
giungere alla conclusione che forse, ma proprio forse, queste femministe
inalberate, per quanto animate dalle migliori intenzioni, affrontino la
questione in maniera non dico sbagliata, ma almeno un po’ incompleta.
Partiamo dalle basi: a me nessuno ha mai detto in faccia che
le femmine, o la sottoscritta in quanto femmina, fossero meno intelligenti dei
maschi o per natura meno inclini alle scienze dure. Di fatto, un periodo della
mia vita in cui ero brava in matematica c’è stato, ed è durato all’incirca fino
alla quarta elementare. Lo ricordo come un passaggio fondamentale: la maestra
che ci insegnò a far di conto fino alla quarta e che tutti adoravamo per la sua
dolcezza e i suoi metodi divertenti e coinvolgenti andò in pensione senza
riuscire a portarci fino in quinta e fu sostituita da un’altra, che col senno
di poi probabilmente era ingiusto giudicare male come la vedevo allora, ma che
ci confuse tutti quanti. Con lei mi pareva di non essere più capace di fare
cose che fino all’anno prima mi riuscivano benissimo, e cominciai ad aver paura della matematica. Ho sudato sui
numeri da allora, a prescindere dai diversi insegnanti avuti, ciascuno con i
propri modi e le proprie pretese. Ma nemmeno lei favoriva in alcun modo i
maschi: eravamo spiazzati tutti.
In compenso, e qui sta il bello, capii che mi piaceva scrivere. Mi era sempre piaciuto, a dirla
tutta, ma fino alla quarta forse non avevo una singola materia preferita. Magari
avrei addirittura risposto “matematica” alla fatidica domanda, perché quando
facevo i compitini per la maestra tanto buona e simpatica mi divertivo di più,
ma per essere onesti non avevo ancora capito da che parte tendessero le mie
inclinazioni naturali. Mi piaceva imparare, punto. Tutto. In quinta, con la
delusione della nuova insegnante, mi buttai sul lato opposto anima e corpo e
scoprii che, ohibò, scrivere era proprio una gran bella cosa che non mi faceva
venire altrettanto mal di stomaco! Ed eccomi qua a scrivere per voi. Quel
fatidico cambio è stata una delle esperienze più formative della mia vita, se
vogliamo essere sinceri.
Però, però… capite cosa vuol dire essere una giovane donna
che studia materie umanistiche e trovarsi davanti al naso analisi come quella
riportata sopra? Fa venire dubbi infiniti. Fa star male. Almeno in parte, in
quello stereotipo mi devo riconoscere: anch’io sono una femmina che ha perso
interesse per le materie STEM durante l’infanzia, poco importa che la causa della perdita d’interesse, per
come la percepisco io, sia ben diversa da quella indicata. E se stessi dando la
colpa alla maestra erroneamente? E se avessi subito questo apparente lavaggio
del cervello senza rendermene conto? E se fossi stata destinata a una brillante
carriera che avrebbe messo in ombra pure Margaret Hamilton? E se, e se, e se…?
Ma come si suol dire, “con i se e con i ma la storia non si
fa”. È successo quel che è successo, io ora studio materie umanistiche, mi
piace farlo, e grazie tante. Non lo faccio perché credo che le donne non siano tagliate per fare le
scienziate, ma perché credo che questa
donna che sta scrivendo questo post abbia tutto il diritto di questo mondo di
prendere un’altra strada per sincero interesse.
Alle femministe arrabbiate vorrei dire, alla fin fine,
soltanto questo: noi studentesse non STEM, felici e per nulla limitate dalla
nostra scelta, esistiamo. Se vedete
una donna che sceglie Lettere o Filosofia, provate almeno a non presumere che l’abbia
fatto perché persuasa dal padre, dai fratelli o dagli insegnanti (magari
maschi) di non poter fare altro. Io trovo parte della radice di quel che sono
ora in due insegnanti donne, addirittura, sicuramente entrambe valide, ma di
cui una mi piaceva e l’altra no. Il sesso non ha niente a che fare con la loro
bravura.
Non ho intenzione di negare che esista un
marketing separato per genere nel vestiario e nei giocattoli, con l’azzurro da
una parte e il rosa dall’altra e i giochi “da femmine” che a quanto pare ci
vogliono tutte o casalinghe disperate o bellissime principesse, come se gli
unici due modelli disponibili fossero le due opposte versioni di Cenerentola,
mentre quelli “da maschi” propongono un ideale o di uomo d’azione stile
supereroe o di intelligentissimo scienziato, col Piccolo Chimico e similari.
Sarebbe da stupidi. Vedo benissimo che è così.
Ma non ho intenzione di permettere che un’invasione di video
e articoli sull’argomento, per quanto veritieri, mettano in dubbio la validità
del modo in cui sono stata cresciuta. Sentir dire, generalizzando a volontà,
che le bambine vengono educate in funzione di stereotipi femminili limitanti e
dannosi, è molto semplicemente un insulto ai miei genitori che non intendo
sopportare. Non è così per tutte, alla faccia dei vari hashtag #YesAllWomen che
impazzano sulle pagine delle femministe irriducibili.
Sì, ho avuto una cucina giocattolo.
Sì, ho avuto un’infinità di Barbie.
Sì, guardavo i film Disney in cui le principesse erano buone
solo a cantare canzoncine e farsi salvare dal principe di turno.
Ma da piccola mi scambiavano per un maschio per via dei
capelli corti.
Ho avuto il mio bravo set per gli “esperimenti scientifici”
e, anche senza quello, riuscivo a fare infiniti pasticci nella cucina della
nonna dopo aver guardato con gran piacere l’ultimo episodio de Il laboratorio di Dexter. E odiavo la
sorellina scema.
Oltre al desiderio infantile di essere una principessa, ho
avuto periodi di fissazioni decisamente “maschili”, se vogliamo dar retta ai
compartimenti stagni, come le gerarchie dell’esercito e lo spionaggio alla
James Bond.
Sì, vestivo e rivestivo le mie bambole e inventavo storie su
storie. Ma le mie compagne di plastica erano impegnate anche in attività molto
meno fashion, tra cui i tuffi
acrobatici alla Tania Cagnotto e improbabili acrobazie circensi appese al filo
del telefono.
A sentire mia madre adoravo Biancaneve e Cenerentola, ma
quel che ricordo io è di aver corso per tutta la casa usando l’asta della
nostra bandiera italiana come il lungo bastone con cui si allenava Mulan.
Sapevo benissimo che a volte la principessa si salva da sola.
Questo non sembra proprio il profilo di una futura donna
limitata dagli stereotipi di genere, o sbaglio?
Eppure eccomi qua. Studio Filologia, scrivo, se
vedo un’equazione a distanza di dieci metri scappo. Uno stereotipo vivente. O
no?