martedì 23 dicembre 2014

Finger knitting, che passione!

Un'idea regalo dell'ultimo minuto

Saluti a tutti quanti e, visto che siamo nel periodo, buone feste a chi le celebra. A proposito di feste, ormai è quasi Natale: avete già pensato ai regali? Come sarebbe a dire, no? Non preoccupatevi, la vostra gatta di biblioteca è qui per salvare la situazione! Oggi vi parlo di una tecnica semplicissima e divertente che ho trovato per puro caso in giro per il Web: il finger knitting, che per chi non ci sa fare con l'inglese significa lavorare a maglia con le dita. Proprio così: con queste istruzioni potrete confezionare facilmente, in una pigra serata invernale, una simpatica sciarpa ad anello senza toccare neanche un ferro, ma solo con le mani! Se avete una parente o amica freddolosa, è il regalo perfetto (ma anche se non l'avete: io ne ho realizzata una per la persona meno freddolosa che conosco!).
OCCORRENTE:
Un gomitolo di lana molto spessa o, meglio ancora, due un po' più sottili
Un paio di forbici
Opzionale: quattro penne o matite
Le vostre dita
Tanta pazienza
COME SI FA:
Premessa: le istruzioni sono scritte presumendo che siate destrorsi. Suppongo che a un mancino possa essere più comodo scambiare i ruoli delle due mani, ma non so se o come cambi il procedimento in questo caso. Inoltre, da qui in poi si darà sempre per scontato che abbiate scelto di usare due fili insieme, ma la procedura con uno solo è identica.
Per prima cosa, togliete eventuali anelli dalla mano sinistra, o il filo vi si potrebbe incastrare. Trovate il famigerato bandolo della matassa e legatevelo al pollice sinistro con un nodo scorsoio semplice. Cercate di non fare il nodo proprio all'estremo, ma di lasciare un po' di filo inutilizzato. Sembra senza importanza, ma se non lo fate ora avrete problemi dopo: quei centimetri che paiono inutili all'inizio serviranno alla fine. Afferrate i fili tra il pollice e la base delle altre dita.


Assicuratevi di aver svolto un po' i gomitoli (sarà un gesto che dovrete ripetere più volte: si lavora meglio se non tirano troppo) e prendete nella mano destra i due fili contemporaneamente. Da qui in poi li userete sempre insieme, come se fossero uno solo: per questo un gomitolo spesso e due più sottili si equivalgono. Fateli passare sopra l'indice, sotto il medio, sopra l'anulare e sotto il mignolo.



A questo punto avvolgete i fili intorno al mignolo e tornate indietro: sotto l'anulare, sopra il medio e sotto l'indice.



Noioso? Complicato? No problem, una delle parti peggiori è appena finita. Fate passare i fili sopra le dita, tutte e quattro, senza fare altri slalom, e lasciateli momentaneamente andare. Per non fare confusione, assicuratevi che la parte di filo che avete fatto passare tra le dita si trovi proprio alla base, più in basso che potete, e la parte appoggiata sopra un po' più in alto. Abbassare i fili sarà un altro di quei gesti che vi ritroverete a compiere spesso. Mi raccomando, fatelo: rende tutto più chiaro e previene molti errori.

Ora, partendo dal mignolo, sollevate il filo in basso e sfilatevelo da ogni dito facendolo accavallare su quello in alto, di fatto scambiandoli. Aiutatevi in questo passaggio piegando il dito di turno, così eviterete che il punto scivoli via.





Una volta assicurati i fili alle dita in questo modo, afferrateli e fateli passare sotto l'intera mano e poi sopra: dovreste trovarvi in una situazione simile a prima, coi fili che passano intorno all'indice e attraversano tutte e quattro le dita che state usando come telaio.

Accavallate di nuovo i fili dito per dito, sempre con quello sotto che passa sopra e si sfila. Ripetete il procedimento a oltranza, fino alla fine dei gomitoli. Sarà un lavoro ripetitivo, ma ne varrà la pena. Dopo qualche passaggio, la vostra sciarpa comincerà a pendere dal dorso della mano e dovrebbe avere più o meno questo aspetto. Sembra bruttino e terribilmente sbagliato, ma vi assicuro che è giusto.

Quando comincia a prendere forma sfilate il nodo dal pollice e scioglietelo. Tirate piano l'estremità e guardate cosa succede: dovreste ottenere una grossa treccia che vi dà l'idea dell'aspetto finale del vostro lavoro. Da qui in poi, consiglio di dare una gentile tiratina ogni tanto, senza cadenza regolare, quando vi viene in mente, giusto per assicurarvi che il vostro serpentone di lana intrecciata stia crescendo bene.

Premiamo fast forward sul telecomando: ora dovreste avere un gran bell'accumulo di sciarpa accanto a voi e due gomitoli che, via via che lavorate, si fanno sempre più piccoli.
Oh, no! Avete necessità d'interrompere il lavoro per riprenderlo in seguito (inventatevi voi il motivo). Come fare a sfilare il tutto senza perdere i punti in corso? Assicuratevi per prima cosa, per evitare confusione, di trovarvi all'inizio (o alla fine, a seconda dei punti di vista) di un giro.
Prendete quattro penne o matite, meglio se con alcune caratteristiche precise: tutte diverse d'aspetto, in modo da potervi ricordare quale fosse associata a quale dito, e più lisce possibili, senza pupazzetti all'estremità né altri ostacoli allo scorrimento. Con molta attenzione, sostituite ogni dito con una di esse. Fate qualche esperimento: potreste trovarvi meglio sfilando il punto e inserendovi subito la penna o matita, oppure allentandolo in modo da infilarla insieme al vostro dito per poi toglierlo e lasciarla da sola.
Una volta ripetuto il procedimento con tutte e quattro, dovreste trovarvi entrambe le mani libere e il lavoro interrotto dovrebbe apparire all'incirca così:

Andate a fare quel che dovete e, al ritorno, fate il gesto inverso: sostituite ogni penna o matita con il rispettivo dito. Se necessario, fatevi aiutare in questi passaggi da una seconda persona: io ho riscontrato qualche difficoltà nel farlo da sola, e ho sicuramente trovato più complicato riprendere che interrompere. È una tecnica lenta, che non va affatto bene se il vostro bisogno di fermarvi è improvviso, ma purtroppo non ne conosco altre.
Mandiamo avanti ancora un po' la cassetta (sì, sono antica, ma mi è simpatico l'effetto che fa un VHS accelerato, con le righe che attraversano lo schermo e i tipici rumorini associati, un DVD non dà l'immagine mentale che cercavo!) e vediamo cosa succede quando avete finito. Un consiglio spassionato: quando vedete che i fili sono agli sgoccioli, cercate sempre di fare un giro in meno piuttosto che uno in più. Ai fini della chiusura della sciarpa, è molto più scomodo trovarsi con un'estremità troppo corta e difficile da maneggiare che con una troppo lunga che si può poi semplicemente tagliare. Assicuratevi di nuovo di trovarvi tra un passaggio e l'altro, prendete il poco filo rimasto e fatelo passare sotto la parte avvolta al mignolo.

Sfilate la lana dal mignolo e tirate piano: l'estremità dovrebbe cominciare a chiudersi come in foto. Fate lo stesso con le altre dita, una per una, fino a liberarvi tutta la mano.

Ora ripescate l'estremità iniziale dal mucchio di lana che si sarà sicuramente formato, trovate un buco qualsiasi tra i primi punti di quella opposta e infilatevi la parte extra di filo: ora capite perché all'inizio bisognava lasciarne pendere un po', vero? Fate lo stesso all'altro capo e legate le estremità con il più semplice dei nodi. Il tutorial che ho seguito suggerisce di ripetere la procedura un altro paio di volte per maggiore sicurezza, ma così facendo io ho riscontrato un problema: tende a formarsi una sorta di accumulo, mentre noi puntiamo a una chiusura invisibile. Furbescamente, io mi arrangio chiudendo con un nodo doppio o pure triplo, senza ripetere. Giuro che funziona, ho tirato e non si sfila. Basta stringere più che si può.


Armatevi di forbici e, con molta attenzione, tagliate l'eccesso: dovete tagliare vicinissimo alla chiusura, in modo che non resti più nulla di pendente, ma senza spezzare inavvertitamente altre parti.

Dovreste avere un enorme anello di lana intrecciata, a prima vista non semplicissimo da maneggiare, come quello in foto.

Afferratelo in qualsiasi punto e mettetevelo al collo (o, se la chiusura non vi è riuscita perfetta, assicuratevi che si trovi dietro, dove si vede poco) e cominciate a fare diversi giri, finché la sciarpa smetterà di pendere fino a terra. Il bello è che potete tenerla larga o stretta quanto volete. Se siete maldestri come me, avrete bisogno di qualche esperimento per trovare la larghezza giusta: io ho fatto una prova e l'ho messa troppo stretta, non dico fino a soffocare, ma procurandomi un certo fastidio. Messa come si deve è comodissima, promesso.

Forza, armatevi tutti di gomitoli: avete ancora il tempo di confezionare un regalino per riscaldare qualche conoscente sensibile al freddo in questo inverno appena cominciato! Con meno lana, meno pazienza o una combinazione delle due cose, potreste realizzare con lo stesso sistema anche dei simpatici bracciali artigianali.
Come ultimo colpo di coda, ringrazio di cuore la mia amica S. che si è prestata come modella: per realizzare le foto del tutorial ci volevano almeno tre mani, due che lavorassero e una che scattasse! Thank you, merci, gracias, danke, arigato, insomma... ci siamo capite! Sarai ricompensata per l'impegno con un esemplare tutto tuo, il che poi è solo una scusa per farne un'altra: una volta cominciato, non ci si ferma più, parola di Gatta.

sabato 20 dicembre 2014

In sala lettura: Il Baco da Seta, Robert Galbraith

Un tessuto sì, ma di citazioni

Salve a tutti, cari lettori. Oggi continuiamo la “gloriosa” tradizione di prenderci ogni tanto un momento per parlare di libri, e lo facciamo con un titolo che forse vi ricorderà qualcosa: si tratta del secondo nella serie di Cormoran Strike, firmata Robert Galbraith alias J.K. Rowling, col cui primo volume avevo inaugurato tempo fa il mio angoletto delle recensioni.
Prima di addentrarci a parlare della trama, che preferisco accennarvi a pennellate veloci per non cadere nel rischio di rovinarvi la sorpresa finale (ed è una sorpresa, fidatevi: conoscendola, sapevo fin dall'inizio che il finale sarebbe stato del tutto insospettabile, ma le mie congetture si fermavano lì), soffermiamoci un momento sul titolo. Con questo secondo episodio sta cominciando a formarsi uno schema ricorrente: sospetto che da qui in poi su ogni copertina figurerà il nome di un animale e che la connessione tra esso e il contenuto non sarà mai immediatamente evidente.
Rispetto alla perplessità che aleggia su quasi tutto il primo volume, in cui non si scopre se non molto più avanti cosa c'entri il cuculo, tuttavia, stavolta almeno il mistero del titolo è risolto presto: Il Baco da Seta è un riferimento al manoscritto di un romanzo che fa da perno all'intera storia, che l'autore aveva battezzato Bombyx Mori, ovvero il nome scientifico dell'insetto, che però nel contesto diventa il nome del protagonista, il quale non si sente affatto a disagio nel suo mondo con una denominazione del genere, dato che anche gli altri vantano un'impressionante collezione di nomi e soprannomi di varia natura uno più strano dell'altro: Succuba, Zecca, Tagliatore, Vanaglorio, Arpia, Epicoene e (preparatevi al peggio) Phallus Impudicus, a sua volta un nome scientifico, però di un fungo velenoso.



Pare quasi che la nostra autrice, che stavolta passa dall'ambiente dei flash fotografici a uno che conosce ancora meglio, quello dell'editoria, abbia trasferito sulla vittima, Owen Quine, scrittore di fama scarsa e opinione di sé altissima, l'abitudine dei nomi tematici: alla lista di nomi di uccelli per stavolta si aggiunge solo il vezzeggiativo della figlia di lui, Orlando “Dodo” Quine (sì, è femminile, lunga storia), una ragazza con gravi disturbi dell'apprendimento che a ventiquattro anni aveva dato a Strike, da come ne parlava la madre, l'impressione di una bimba di non più di dieci, e per di più nel corso del libro si specifica per benino l'origine reale del nome di Cormoran, che non ha quella famigerata T finale perché con i volatili non c'entra proprio nulla ed è invece il nome di un gigante del folklore britannico (un brutto colpo alla mia teoria dei pennuti, ma comunque un nome parlante nel suo solito stile, vista la stazza del detective: nomen omen, come sempre!). Particolarmente intelligente, poi, la scelta di un animale estinto e incapace di volare nonostante la sua appartenenza alla classe degli uccelli: sarà anche questo un riferimento alla disabilità del personaggio?

In comune con l'altro libro c'è il fatto che anche questa storia di omicidio non comincia come tale: se quello di Lula Landry era stato liquidato come suicidio, quello di Quine inizia come un caso di persona scomparsa, con la moglie, Leonora, che si presenta nell'ufficio di Strike per chiedergli di ritrovarlo. Owen è un pessimo marito, il perfetto ritratto dell'artista capriccioso, ed è normale che sparisca dalla circolazione per alcuni giorni per poi tornare, ma ne sono passati già dieci, più del solito, e lei decide di rivolgersi al nostro eroe, che nel frattempo, con la notorietà acquisita dopo il caso di Lula, ha cominciato a farsi una discreta fama e lavora incessantemente, per lo più come pedinatore di coniugi presunti infedeli.
Nell'andarsene, Owen ha portato con sé il manoscritto del suo ultimo romanzo, Bombyx Mori, per l'appunto, che se fosse pubblicato rischierebbe a quanto pare di causargli una pioggia di problemi legali: dietro ognuno di quei nomi improbabili si nasconde infatti, neanche troppo mascherata, una riconoscibilissima persona reale, dalla moglie all'amante, dall'editor a uno scrittore rivale, alcune accusate anche di fatti gravissimi (uno su tutti: Quine insinuerebbe che sia stato lo stesso marito, Michael Fancourt, a scrivere una parodia anonima che tempo addietro aveva spinto la sua prima moglie al suicidio). Uno scritto, insomma, che gli procurerebbe parecchi nemici se fosse stampato e distribuito al grande pubblico.
L'indagine subisce una svolta quando è Strike stesso a ritrovare il cadavere di Quine proprio in un luogo dove la moglie si professava convintissima che non fosse, perché per quanto ne sapeva lo odiava e non vi metteva piede da anni. Non solo la natura del caso cambia da sparizione a omicidio, ma il crimine è avvenuto riproducendo esattamente la modalità della morte del protagonista di Bombyx Mori, chiaro autoritratto, ponendo così il colpevole necessariamente nella rosa di coloro che l'hanno già letto (che purtroppo non sono pochi). Breve ma necessario interludio: se non vi dico di preciso come muore Owen, è per metà per evitare spoiler e per metà per non vomitare sulla tastiera. Rispetto a colei che autocensurava il suo immaginario per adattarlo a un pubblico giovane e aveva inventato come picco di malvagità un incantesimo in grado di dare una morte veloce, pulita e senza tracce, Il Baco da Seta è un romanzo davvero molto crudo. Pare quasi che la Rowling stia tirando fuori in un colpo solo tutto lo schifo che si era tenuta dentro per non impressionare i bimbi innocenti che sognavano l'undicesimo compleanno per andare a Hogwarts. Non sono particolarmente schizzinosa, perlomeno quando leggo (i film sono un'altra storia, provo molto meno ribrezzo con la carta che con la pellicola), ma ho trovato l'assassinio di Quine assolutamente disgustoso. Lettore avvisato, mezzo salvato. Simili avvertimenti andrebbero apposti anche per quanto riguarda il linguaggio, che è (al solito) molto più pieno di “Vaffanculo” rispetto alla saga del maghetto, e per i riferimenti sessuali, che di necessità abbondano, perché i romanzi di Quine sono in generale parecchio espliciti. Vale la pena di andare avanti, se non vi scandalizzate, ma non dite che non ve l'avevo detto.
Tra copie di Bombyx Mori che circolano e ricerche sui lavori precedenti di Owen, il libro diventa un interessante sistema di scatole cinesi, con i personaggi di un'opera letteraria che ne divorano e citano in continuazione altre, sia reali sia di fantasia, e per di più con ogni capitolo che si apre con una breve frase tratta da un libro che, a saper leggere tra le righe, ne anticipa il contenuto. Altro che seta, questo è un tessuto, certo, ma d'intertestualità. Tanto di cappello.
Ricordate l'appunto di poco conto che avevo fatto a Il Richiamo del Cuculo, secondo cui gli interrogati ricordavano troppo e troppo bene? Ho come l'impressione di non essere stata l'unica a notare il difettuccio, perché stavolta “Robert” ovvia al problema alla radice, per prima cosa ponendo il fattaccio a distanza di meno tempo, e secondo, premurandosi di far specificare quando necessario ai personaggi, spontaneamente o in risposta a domande precise, qualcosa del tipo: “Sono sicuro che sia così perché...” e via dicendo, con il testimone di turno che collega plausibilmente il dettaglio richiesto a un altro fatto che è certo di rammentare.
Parallelamente all'indagine, tra acute interviste più simili a partite a scacchi che a colloqui in cui Strike calcola attentamente ogni mossa per cavare dai conoscenti e colleghi della vittima più informazioni possibili e pian piano tratteggia una complessa storia di dissapori personali e letterari che danno dell'universo della carta stampata l'impressione di una vasca piena di squali, stratagemmi per infiltrarsi come ospite aggiuntivo a feste a cui non era stato invitato e un paio di concitate scene in auto con un'inedita Robin passione stuntwoman al volante, prosegue anche la vita personale dei nostri eroi, nelle quali si profilano all'orizzonte ben due matrimoni. Da una parte c'è quello di Robin con il noiosiss... ehm, rispettabilissimo Matthew, che viene rimandato a causa della morte della madre di lui, stavolta per cause naturali, e dall'altra quello di Charlotte Campbell, la bellissima e altolocata ex di Cormoran, che finisce addirittura sulla copertina di un giornale di gossip per la sua unione con un visconte che pare non aver nulla da invidiare al Royal Wedding tra William e Kate, che peraltro fa da sfondo al romanzo, dato che la storia si svolge in quel periodo, e addirittura aiuta Strike a ricordarsi dell'esistenza di una pista inesplorata perché, per una coincidenza furbescamente architettata dall'autrice, un personaggio porta lo stesso nome della sorella di Kate. Tra alti e bassi vari, sembra che alla fine sul fronte sentimentale siano entrambi messi meglio di com'erano partiti: Charlotte ricorre a un ultimo, disperato tentativo di tornare tra le braccia di Cormoran alla vigilia del fatidico sì, ma lui dimostra finalmente di avere la forza di volontà di ignorare il suo SMS, lasciarla al triste destino che si è scelta da sé e cominciare a guarire dalle ferite lasciate dalla loro relazione malsana, mentre Robin, che inizia a rendersi conto di quanto l'atteggiamento del fidanzato ostacoli il suo lavoro e reprima la sua indipendenza, prende il coraggio di confessare a Matthew la portata del suo amore per l'investigazione, che esisteva già da prima di Strike e non dev'essere dunque motivo di gelosia, e ottiene un certo grado di ammorbidimento da parte di lui, che comunque non ne è entusiasta. Se si arrenderà del tutto per il bene del loro futuro matrimonio o se si lasceranno prima dell'altare è ancora tutto da vedere. Venghino, venghino, signore e signori, si accettano scommesse!
E così, con i sostenitori di un eventuale futuro sviluppo romantico tra i protagonisti ancora pieni di speranze e Robin che aspetta con ansia che cominci il corso d'addestramento offertole dal capo, dal valore ben più ufficiale di qualche sparuto incarico lontano dalla scrivania, mettiamoci in attesa anche noi, sì, ma dell'uscita del terzo episodio...
A presto, amici!
Valutazione complessiva: 

sabato 29 novembre 2014

Dalla malignità umana non si scappa...

... nemmeno andando nello spazio!

Saluti di proporzioni galattiche a chiunque passerà di qui. Scusate il prolungato silenzio, ma oltre a un orario talmente fitto da farmi desiderare la Giratempo di Hermione ho da incolpare anche un nuovo hobby. In modo del tutto inaspettato, la vostra gatta di biblioteca si sta lentamente trasformando in una Trekkie coi controfiocchi. Mi è nata quasi dal nulla una passione per la fantascienza, genere che per anni avevo beatamente ignorato, senza poter dire né di amarlo né di odiarlo, e se mi chiedete dove io sia stata in tutto questo tempo posso rispondervi con relativa sincerità che mi sono presa una vacanza a sedici e qualcosa anni luce da qui, sull'immaginario pianeta Vulcano, perché ultimamente ci ho pensato così tanto che è quasi come esserci stata. (Santo cielo, “sedici e qualcosa”, Spock mi farebbe a fettine. Senza almeno un paio di decimali non lo si fa contento. Quanti erano di preciso? 16,45?)
Ma adesso passiamo a parlare di qualcuno che nello spazio è andato davvero. Se non avete trascorso questi ultimi giorni in un bunker tagliato fuori da qualunque forma di comunicazione, molto probabilmente saprete che domenica 23 novembre l'astronauta italiana Samantha Cristoforetti è partita con la navicella Soyuz per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale. Ammetto che se non fosse stato per questa mia nuova fissazione con “l'ultima frontiera” (sì, era una citazione, secondo voi sono già da ricovero?) non avrei seguito l'evento con tanta trepidazione, ma sta di fatto che ho passato la serata a seguire lo streaming del lancio ed è stata un'esperienza che avrei raccomandato a chiunque.
Ebbene, ricordatemi di non andare mai nello spazio, o più in generale di non diventare mai famosa, perché se alla nostra AstroSam invidio le meravigliose vedute della Terra dalla stazione, certamente non vorrei essere al suo posto sotto tanti altri aspetti, in primis il fatto di essere costantemente sotto gli occhi del pubblico. Quando una persona è celebre, vuoi per invidia, vuoi perché fare certi commenti a distanza e nascosti dietro uno schermo fa cento volte meno paura che dirli in faccia, non può compiere un singolo, stramaledetto passo, in condizioni di gravità normali o meno, senza che le piovano addosso da ogni parte commenti di una cattiveria tale che mi stupisco che l'essere umano possa averne in sé così tanta. Sarà che ho un grande rispetto per la Cristoforetti, sarà che si è sempre comportata come una persona alla mano tutta intenta a dimostrare di essere ancora una donna normale nonostante il suo status tutt'altro che normale, ma quando sento certe critiche nei suoi confronti è quasi come se avessero insultato una mia amica. Mi rendo conto di esagerare, ma quel faccino un po' furbetto che ci sorride dalle stelle mi ispira una tale simpatia che non posso farne a meno.
Eccovi una breve carrellata del meglio del peggio, o del peggio del meglio, insomma... avete capito, no?
Cominciamo con una serie di commenti su Facebook che purtroppo sono costretta a riassumervi perché ho perso di vista lo screenshot. Detto molto in breve, in mezzo a tanti che per fortuna le facevano gli auguri per la missione, qualcuno ha pensato bene di sottolineare o che secondo lui è brutta, o che per essere lì dov'è doveva essere per forza raccomandata.
Ora, io sono la prima a pensare che l'accusa di sessismo ultimamente voli con un po' troppa facilità, ma si può sapere cosa importa se AstroSam non è Miss Universo? È lassù per condurre degli esperimenti, tra i quali non credo che sia contemplato quello di fare la prova di come sia sbaciucchiarsi in microgravità. Qui conta solo il suo cervello, non il suo aspetto. Al massimo, se proprio vogliamo preoccuparci del suo fisico, auguriamoci che resti in forma e che le condizioni di vita sulla ISS non le causino troppi disturbi. In tutto la squadra è composta da sei persone, ma degli americani presenti non mi risulta che qualcuno risponda al nome di James T. Kirk. In caso contrario mi preoccuperei, perché quello colleziona ragazze in giro per la galassia come se fossero figurine, ma per ora Samantha è al sicuro, il nostro caro playboy non dovrebbe nascere fino al ventitreesimo secolo. E a proposito di playboy, vogliamo parlare di quel “mostro d'intelligenza” che si è permesso di supporre che ce ne sia stato qualcuno all'interno dell'Accademia dove la nostra eroina ha sacrificato gli anni migliori della sua vita per diventare quello che è oggi? Io non c'ero e non posso sapere come sia andata, ma stiamo parlando di una persona selezionata tra più di ottomila potenziali candidati. Trovare la raccomandazione una volta, soprattutto in Italia, è un fatto che non mi stupisce, ma trovarla tutte le volte, dall'inizio alla fine del percorso? Spock si divertirebbe a calcolare le probabilità di una cosa del genere. Ah, no, scusatemi, lui non si diverte. Mai. (Certo, caro... non ti crede nessuno!)
Sempre nella stessa vena, una pagina umoristica di cui non mostro il logo per non beccarmi recriminazioni ma che molti di voi riconosceranno sicuramente dal font ha pubblicato questo:

E qui concedetemi un moto femminista di rabbia, se non altro perché anch'io sono un esemplare di quella specie protetta chiamata “ragazze che non pensano allo shopping 24 ore su 24”. Siamo in estinzione, lo so, ma esistiamo, proteggeteci! Infatti, puntuale come un orologio svizzero, arriva subito il commento che avrei voluto fare io:

Direi che non c'è altro da aggiungere.
Ma lasciamo perdere il perché e il percome: legittimamente o meno, Sam alla stazione ci è arrivata, e vi trascorrerà i prossimi sei mesi. Se seguite la sua pagina Facebook, saprete che ha l'abitudine di pubblicare foto della Terra scattate dalla Cupola (PS: anche gli americani e i russi chiamano quella parte Cupola, in italiano, perché a quanto pare è di costruzione nostrana), ma anche e soprattutto scatti divertenti di sé e dei suoi compagni d'avventura in momenti di vita quotidiana, come l'improvvisata cena di Ringraziamento consumata a testa in giù. Ma che bella cosa, direte voi: anche a tutti quei chilometri dalla Terra riesce a raggiungere un certo grado di normalità. Se avete pensato qualcosa del genere, sappiate che io sono con voi, ma non tutti lo sono. Questo è quanto è stato detto in relazione a una foto corredata da una didascalia che parlava di uno degli esperimenti:

Per fortuna, a dimostrazione che qualcuno che ragiona in modo sensato a questo mondo c'è ancora, tale commento ha subito scatenato un signor dibattito, al quale mi sono anche permessa di partecipare. Vi riassumo brevemente le mie posizioni.
Primo: c'è una differenza abissale tra tutto quello che gli astronauti stanno facendo in questi giorni e la minuscola parte che possono, o decidono di, condividere. Se si fanno vedere sorridenti e intenti a fare cose che non hanno l'aria di essere professionali, è per una quantità di ragioni: magari non hanno il permesso di pubblicare materiale direttamente relativo agli esperimenti in corso, o magari è una scelta d'immagine ben precisa. Quella di Samantha è una pagina pubblica, per l'amor del cielo! Se condividesse solo foto di cavi fluttuanti e attrezzature varie, incomprensibili per i non addetti ai lavori, come d'altronde se ne vedono sempre sullo sfondo, quanti pensate che la seguirebbero ancora? Può passare di lì chiunque, dalla nerd patentata come me che si tiene aggiornata perché lo sente come un passo in più verso l'Enterprise al bambino sognatore che prende in prestito l'account della mamma per guardare le sue imprese perché da grande vuol fare anche lui l'astronauta. L'idea di professionalità che si è fatta questa persona, la quale poco più sotto esprime addirittura stupore nei confronti dell'ESA che permette di pubblicare queste foto al di sotto delle sue regali attenzioni, scoraggerebbe una grossa fetta di fan. Ma per l'appunto, se l'ESA le permette, non saranno poi così ridicole e poco professionali, o sbaglio?
Secondo: la sua interpretazione quantomeno personale delle foto mi fa ridere per non piangere. È vero, ce n'è stata una che mostrava Sam che pedalava su una sorta di speciale cyclette spaziale, ma se collegasse il cervello alle dita che digitano saprebbe che non si trattava affatto di un gioco, ma di una parte ben precisa della sua strettissima tabella di marcia. Un'ora o due di esercizio fisico al giorno sono assolutamente necessarie in microgravità per evitare una quantità di spiacevoli conseguenze che non vi so spiegare bene. Dov'è McCoy quando serve? È anche vero che ce n'è stata una che mostrava l'attuale comandante in atto di correre senza peso lungo un corridoio, ma come la didascalia spiegava benissimo, non si trattava di una gara di corsa ingaggiata così, tanto per fare (anche perché Sam non si trova nell'inquadratura, ergo non stava gareggiando con lui) ma di uno scatto che mostra quanto sia bravo lui, che è nello spazio da più tempo, a muoversi in quelle condizioni, rispetto a lei che è arrivata da poco. Le gare vere, se ci saranno mai, si faranno dopo: per ora Sam stava solo esprimendo la sua ammirazione per il suo diretto superiore. Dov'è la mancanza di professionalità? Le foto alla Terra, che peraltro sono bellissime, sono parte integrante di quel lavoro che secondo questo meraviglioso esemplare umano non sta facendo, e anche i suoi predecessori, come Parmitano, ne scattavano a bizzeffe. Infine, due parole sui famosi asparagi reidratati che nell'immagine incriminata Sam acchiappava direttamente con la bocca: solo perché si è fatta vedere mentre mangiava un singolo boccone in modo un po' più giocoso tu sai con certezza che non ha consumato il resto del pacchetto rispettando perfettamente il “galateo” dello spazio? E se invece avesse deciso di prendere il cibo in quel modo perché, mangiandolo con le mani come suggerisci tu, se le sarebbe sporcate? Ti ricordo che, con l'acqua che si comporta in quel modo strano, lavarsi sulla ISS è una delle incombenze più scomode!
Un'altra chicca: Samantha è l'unica italiana in un equipaggio composto da americani e russi, come dimostra anche il simpatico dettaglio, se l'avete mai notato, del nome sulla divisa traslitterato in cirillico appena sotto i caratteri latini. Comunicherà, suppongo, in inglese, che è solo una delle tante lingue che parla. Neanche con il russo ha problemi, e ho sentito raccontare da persone che lo studiano che c'è da strapparsi i capelli. Io non ne so una parola, ma i pochi, sparuti esempi in russo fatti dal mio professore di Linguistica mi hanno sinceramente fatto paura. Tanto di cappello alla nostra poliglotta. Le sue didascalie e gli estratti del diario di bordo (che farfalle nello stomaco quando li vedo, quasi quasi mi aspetto di vederli corredati con le date astrali!) sono sempre bilingui, italiano e inglese, a beneficio di tutti quelli che passano a leggere. Credereste mai che possa capitare da quelle parti qualcuno col coraggio di fare le pulci alla sua grammatica? Eppure è successo! Non riesco più a rintracciare il commento di quell'adorabile grammar nazi, cosa che mi fa sospettare che l'abbia cancellato dopo essersi finalmente resa conto di quanto sia stata miope nel far rilevare una cosa di questo genere di fronte a uno scatto mozzafiato del nostro pianeta visto dall'alto, ma vi garantisco che fino a poco fa c'era ed esprimeva tutta la sua delusione nei confronti dell'astronauta che parla inglese “come una che ha fatto la scuola estiva a Londra” (e questo cosa mi dovrebbe significare? Non è forse vero che entrare in contatto con l'inglese per la strada ti lascia con una conoscenza superiore rispetto ai soli libri? Quello che io prenderei come un complimento, nel contesto, era decisamente venato di critica, come se le tanto celebrate vacanze studio all'estero fossero inutili, e io sono ancora qui a chiedermi perché).
Notare, peraltro, che AstroSam era “colpevole” soltanto di aver fatto un uso dei tempi verbali non elegantissimo, non proprio da libro di testo, ma che nell'inglese parlato di tutti i giorni può capitare, specie a una persona che abbia passato un periodo in un Paese anglofono, com'è capitato a lei, che è stata a lungo a Houston per addestrarsi al Johnson Space Center. Notizie dell'ultim'ora: una lingua non è un monolito, è una cosa viva, che cambia, e nessuno la parla come l'ipotetico John e l'immaginaria Jane che insegnano ai bambini a dire “The cat is on the table”. C'è un'altra didascalia in cui Samantha a mio parere ha effettivamente saltato un articolo: roba da poco, può rimanere nella penna (o tastiera) a chiunque, ma mi è venuto un brivido, già vedevo la maestrina tornare alla carica...
In breve: fatevi un promemoria anche voi per ricordarvi che la celebrità costa. “Essere famosi”, non si sa bene poi per cosa, oggi è il (genericissimo) sogno di molti, ma per me somiglia di più a un incubo. Se siete disposti, in cambio dei riflettori, a dovervi impegnare giorno e notte a essere maledettamente perfetti, per poi scoprire che comunque è inutile, perché le critiche arriveranno in ogni caso, la scelta è solo vostra. Io preferisco restarmene nell'ombra a fare i miei errori in pace, grazie. Come dice il titolo, dalla malignità umana non si scappa nemmeno andando nello spazio.

sabato 14 giugno 2014

Sgranocchiando popcorn: "Maleficent"

Una fiaba classica come non l'avete mai vista

Salve a tutti, cari lettori! Ebbene sì, sono ancora viva. Perdonate la prolungata assenza, ma una gatta di biblioteca sotto esame tende a ritirarsi nella sua tana e non uscirne più per un po', eccezion fatta per l'occasionale capatina al cinema.
In questo caso si tratta della pellicola del 2014 Maleficent, debutto da regista di Robert Stromberg, con Angelina Jolie nel ruolo della malvagia protagonista. 
Un momento, siamo proprio sicuri che sia così malvagia? Il nome sembra certamente suggerirlo, ma già le prime scene sembrano voler ribaltare il punto di vista tradizionale. La creatura cornuta e alata che è Malefica da bambina pare proprio un perfetto esempio di bontà, amica di tutti nel regno fatato chiamato semplicemente Brughiera e tutta intenta a usare la sua magia solo per cosette perfettamente innocenti. E già qui concedetemi un momento di perplessità: bravissimo, caro il mio regista, sei riuscito a farmi capire che il tuo intento è di mostrarmi che Malefica non è nata cattiva... e allora perché il nome? Ma dico io, come si fa a chiamarsi “Malefica” senza sentirne neanche un po' il peso? Non avrebbe avuto più senso che in origine avesse avuto un altro nome dolce, carino e fiabesco al punto giusto, per poi assumere “Malefica” come pseudonimo più avanti?
Perché, come vedremo, cattiva lo diventerà eccome. La gigantesca differenza è che, se nella fiaba classica la fata malvagia è uno di quei cattivi che sono “cattivi e basta” e arrivano a rovinare la festa a tutti senza che si stia a spiegare il perché e il percome, la prima parte del film esplora proprio le sue motivazioni, facendo di qualcun altro il vero antagonista della situazione.
Questo qualcuno è nientepopodimeno che re Stefano, futuro padre della principessa Aurora, che fa la conoscenza di Malefica quando sono entrambi ragazzini e fa amicizia con lei, un'amicizia che pian piano diventa anche qualcosa di più. La nostra fata si fida di lui al punto di rivelargli l'unica grande debolezza della sua specie, cioè che non sopportano il contatto con il ferro. Segnatevelo, perché è uno di quei particolari che torneranno a prendere i protagonisti a sonori calci nel sedere. E a proposito di dettagli da ricordare, guardate bene quella volta in cui Stefano fa l'esperienza del volo attaccato a un piede di Malefica per poi scivolare e cadere in acqua. Fa solo ridere, sul momento, ma non dimenticatelo.
Raggiunta la fatidica soglia dei sedici anni (vi ricorda niente? Eh, sì, è la stessa età a cui dovrà poi scattare il maleficio sulla figlia), si scambiano un bacio che lui le giura essere quello del vero amore, per poi non farsi più vivo per anni. Immaginatevi che effetto può fare una delusione del genere che cova per tutto quel tempo. Ora cominciate a capire le origini della sua presunta cattiveria, vero?
Vi sento già fare congetture: “Oh, ma che bello, la fata e il principino, non mi verrai mica a dire che in realtà Aurora è una figlia illegittima nonché mezza fata?”. Niente di più sbagliato. In effetti, la prima volta che incontriamo Stefano non si capisce proprio come farà a diventare re, dato che le racconta senza mezzi termini di dormire in un pagliaio del castello invece che su cuscini e materassi di piume. Ma aspettate solo che la narrazione compia un balzo in avanti nel tempo facendo improvvisamente invecchiare i nostri eroi, ora interpretati dai due attori che ne sosterranno la parte per il resto del film, la Jolie per lei e Sharlto Copley per lui, e i tasselli torneranno a posto: Stefano è un servo di fiducia del re precedente, Enrico, il quale, tornato sonoramente sconfitto e quasi in punto di morte da un'infruttuosa battaglia per la conquista della Brughiera, riunisce tutti i pretendenti al trono e promette la successione a chiunque riesca a uccidere Malefica, che aveva guidato le schiere nemiche. Naturalmente, tutto questo gran discorso avviene senza tener conto della presenza discreta del nostro ambizioso protagonista, che se ne sta ben zitto, cominciando già a formulare i suoi piani.
Tornato bel bello dalla sua vecchia fiamma, si fa perdonare, le offre da bere qualcosa che a giudicare dalla reazione contiene un sonnifero e sta per eliminarla davvero, ma ha appena un piccolo guizzo di coscienza che lo spinge a optare per una soluzione un po' meno drastica: tira fuori una catenella di ferro che nel buio della scena notturna si capisce a malapena cosa sia, e quando Malefica si sveglia si ritrova sola e con due grosse ferite sulla schiena dove una volta c'erano le sue ali, che Stefano scarica poco cerimoniosamente sul letto del re come “prova” della sua impresa. Fermiamoci un momento ad apprezzare le doti recitative della Jolie in questa parte: il lunghissimo, disperato urlo che emette quando se ne accorge, che non si sa bene in quanta parte sia dolore fisico e in quanta parte emotivo, è a mio parere uno dei momenti più alti del film quanto a espressività, per non parlare poi della trovata, realistica nell'irrealistico, di Malefica che raccoglie un rametto da terra e magicamente ne fa il fido bastone da cui non si separerà più. Non è un vezzo, è una necessità: impossibilitata a volare, vediamo che nel tentare di camminare all'inizio cade ogni pochi passi, non perché non sappia farlo affatto, ma perché era abituata a farlo così poco da ritrovarsi le gambe quasi atrofizzate.
Questo è un punto cruciale della narrazione e il vero momento, segnalato anche visivamente, in cui possiamo cominciare a riconoscere in lei la cattiva disneyana a cui eravamo abituati. Giù il cappello per il team degli effetti visivi, o chiunque sia stato a decidere che la manifestazione della sua magia dovesse essere color oro quando non è di natura particolarmente malvagia e verde, come Disney comanda, quando invece è specificamente volta a fare del male. La costante presenza del bastone, poi, racconta più di mille battute: facendone un veicolo per la sua magia oltre che un ausilio per camminare, Malefica di fatto trasforma l'ammissione della sua debolezza in uno strumento di forza.
Perdere la possibilità di spostarsi in linea d'aria in poco tempo per lei è come perdere un arto, pertanto abbiamo ben presto l'introduzione di un nuovo personaggio: Malefica coglie per caso sul fatto un cacciatore che ha appena catturato un corvo e sta per bastonarlo a morte e lo salva trasformandolo in un uomo, forse perché nell'uccello costretto a terra dalla rete intravede una condizione simile alla propria. Fosco diventa così il fedele servitore di Malefica e le fa da efficacissima spia, riferendole prima dell'incoronazione di Stefano e poi della nascita di Aurora (scena tra l'altro rivelatrice, perché il nostro ex-corvo apprende il sesso della neonata guardando un gruppo di eccitatissime e pettegole filatrici che per passarsi la notizia abbandonano i loro arcolai).
Al battesimo in grande stile tornano le immancabili tre fatine, prima comparse solo di sfuggita, pronte a omaggiare la piccola con i loro doni di bellezza, felicità e... non si sa, come vedremo. Piccola parentesi: una delle tre, Giuggiola, è interpretata da Imelda Staunton di potteriana memoria (Dolores Umbridge). I fan del maghetto in sala avranno sicuramente notato che, guarda caso, delle tre le hanno affibbiato proprio la parte di quella vestita di rosa. Temo che farà una gran fatica a staccarsi da quel colore.
Ulteriore appunto: Giuggiola, Fiorina e Verdelia? Come, prego? Ma non si chiamavano Flora, Fauna e Serena? Pensavo fosse un problema di doppiaggio, ma Wikipedia mi giura che i nomi sono stati proprio cambiati alla radice: Knotgrass, Thistlewit e Flittle nel remake contro Flora, Fauna e Merryweather nel cartone del 1959. La confusione regna sovrana. Perché mai l'avranno fatto?
L'irruzione di Malefica alla cerimonia interrompe Verdelia sul più bello, cosicché non si capisce cos'abbia in mente di donare alla principessina, anche se un piccolo sospetto c'è. A nulla serviranno le suppliche del padre: la fata getta su Aurora il suo canonico maleficio e se ne va. Un momento, sarà proprio quello canonico? Non esattamente: la condanna è al sonno eterno già in partenza, Malefica non decreta la morte della principessa che sarà poi mitigata in sonno dall'ultima fata che deve ancora farle il suo regalo di battesimo, anche se eravamo stati tutti indotti a pensare che l'interruzione servisse proprio a quello. Da come cominciava la frase, però, presumo che Verdelia stesse per augurarle di trovare il vero amore, il che le servirà proprio, perché il famigerato bacio del vero amore è posto come unica condizione che potrà risvegliarla: delusa com'è, Malefica è convintissima che questo metterà fuori gioco Aurora per sempre, perché crede che il vero amore non esista.
Come fiaba comanda, Stefano fa sequestrare e bruciare tutti gli arcolai e manda la piccola a vivere lontano dal castello per sedici anni e un giorno con le fatine. Le quali, se permettete, sono delle emerite idiote. Se fosse stato per loro, Aurora sarebbe morta entro i primi giorni delle loro cosiddette cure. Io posso anche capire che i loro interminabili litigi fossero una parte indispensabile e divertentissima del film Disney, ma queste qui passano da benintenzionate ma pasticcione a colpevolmente disattente. Non hanno idea di cosa fare per una bambina, non sanno neppure che a quell'età si nutre ancora di solo latte, qualche annetto dopo le troviamo così intente a darsi addosso che Aurora si allontana e quasi cade da una rupe. E allora, direte voi, a sedici anni come ci arriva?
Facile: Fosco sarà pure un corvo, ma Malefica è un vero falco e veglia su di lei tutto il tempo, salvandola da tutte le disavventure da lontano nonostante continui a ripetersi che la odia e a chiamarla “bestiolina”. Ma Aurora non è affatto stupida e si accorge che in una cotale serie di felici casualità c'è qualcosa che non torna, tanto che quando finalmente si incontrano non esita un secondo a chiamarla “fata madrina”, anzi, è così soddisfatta di tale appellativo che nemmeno si preoccupa di chiederle il suo nome vero.
Le due passano sempre più tempo insieme, Aurora fa amicizia con tutta la Brughiera e allo scattare dei sedici anni decide di trasferirvisi. Mentre fa le prove del discorsetto da propinare alle sue “zie”, incontra il principe Filippo. Si presentano, imbarazzo alle stelle, è il primo ragazzo umano che lei abbia mai visto e a occhio e croce anche lui non dev'essere stato finora un gran donnaiolo: per farla breve, fin dal primo momento c'è nella scena quell'atmosfera tesa da “adesso si baciano, dai, forza, cosa aspettano ancora?” che sicuramente conoscerete tutti.
Vi do tre possibilità: riuscite a indovinare cosa stanno facendo le fatine quando Aurora arriva con tutta la decisione di questo mondo, pronta a dir loro che vuole andarsene? Esatto, stanno litigando di nuovo! La farina che vola da tutte le parti e Giuggiola che alla fine si ritrova con mezza faccia blu sono una versione condensata dell'epica battaglia per la torta e il vestito che vi ricorderete di certo se avete visto l'originale. Insomma, quando lei comincia il suo pezzo tanto provato, gli animi sono ancora così caldi che le tre si lasciano sfuggire per sbaglio l'esistenza del padre, che Aurora credeva morto, e sono costrette a dirle la verità sul sortilegio.
A proposito del padre, dove l'abbiamo lasciato? È ancora vivo e vegeto al castello, ma i provvedimenti che prende contro Malefica diventano pian piano sempre più irrazionali, come del resto lui stesso, che sorprendiamo a parlare a una stanza vuota come se la sua nemica giurata fosse lì (l'unica debole giustificazione è che si tratta della stanza in cui le ali sono conservate in una teca di vetro come una reliquia). Detto sinceramente, mi piacerebbe un giorno vedere Sharlto Copley confrontarsi col Macbeth. L'ambizione c'è tutta, l'ossessione per le rivelazioni sul futuro dategli da una figura magica anche. In certi primi piani, Copley ha uno sguardo che sarebbe applicabilissimo al barone di Glamis e Cawdor.
Aurora, tradita da tutto e da tutti, affronta Malefica e poi scappa verso il castello, dove, appena riconosciuta dal padre, viene prontamente rinchiusa nella sua stanza, dato che è tornata un giorno prima della scadenza prevista ed è ancora in pericolo. Ma Stefano ha fatto male i conti: se c'è in gioco un maleficio, non c'è porta che tenga e Aurora ben presto si ritrova nella stanza dove sono ammassati i miseri resti bruciacchiati degli arcolai, di cui uno naturalmente si riassembla da solo davanti ai suoi occhi e la punge.
Ci avviciniamo al finale: Malefica trasforma Fosco in un cavallo e corre a perdifiato al castello portando con sé Filippo, addormentato in groppa al suo bianco destriero in modo tale che mi viene da sospettare che sia pure incollato alla sella, altrimenti sarebbe caduto una decina di volte. Filippo si sveglia proprio davanti alla stanza dov'è stata deposta Aurora e, smarrito, chiede informazioni alle fatine con un solo cervello in tre, che prontamente gli aprono le porte e insistono finché non si convince a baciarla. Ma come c'era da sospettare, un bacio così poco spontaneo e motivato da quella che pare sinceramente essere solo una cotta adolescenziale non è sufficiente e Filippo se ne va con le pive nel sacco. Spiacente, signore e signori, ma qui non è lui l'eroe e la scena classica potete pure scordarvela.
Malefica, che già una volta aveva tentato di annullare il sortilegio solo per scoprire di aver lei stessa posto dei termini che le impedivano di farlo, è sinceramente pentita e prima di andare ad affrontare le truppe di Stefano, in lacrime, le dà un bacetto sulla fronte. Sorpresa delle sorprese (ma anche no), Aurora si sveglia e sarebbe prontissima a lasciare il castello e andare a vivere nella Brughiera con la sua “fata madrina”, salvo per un piccolo particolare: Stefano aveva messo al lavoro tutti i fabbri del regno per dotare il suo esercito di alti scudi di ferro e far costruire una rete dello stesso materiale, prontamente calata dal soffitto per catturare la fata, che si ritrova nell'identica posizione in cui aveva trovato il suo servo. In un ultimo, spettacolare ammiccamento al canone Disney, per salvarsi Malefica trasforma Fosco in un drago che mette fuori gioco gran parte delle forze nemiche e le strappa via la rete. Intanto Aurora, nella sua inguaribile curiosità, aveva trovato la stanza delle ali e, riconosciutele dalla descrizione che gliene aveva fatto la fata, assai saggiamente fa cadere a terra la teca, dalla quale queste scappano, dotate di vita propria, per ricongiungersi alla schiena della proprietaria. Da qui in poi l'esito della battaglia è scontato: Stefano aveva appena fatto in tempo a chiederle malignamente come ci si sentisse ad essere una creatura senza ali quando se ne riappropria e schiva abilmente tutti i colpi dei soldati. L'unico momento in cui se la vede brutta è quello in cui Stefano riesce a fermarla prendendole al laccio una caviglia con una catena, ma nonostante il dolore Malefica riesce a tirarlo su di peso e trasportarlo in un'altra area del castello. Vi dico solo che si tratta di un luogo molto alto e che quando una sa volare i parapetti importano ben poco. Mettete questi indizi insieme a quella scena che vi dicevo, quella dell'involontario tuffo, e forse comincerete a capire quale sia il destino del re.
Dopo quest'epico scontro finale che a giudicare da certi passaggi è stato chiaramente concepito per fare un effetto particolarmente intenso in 3D (ma io l'ho visto in 2D e non lo saprò mai), Aurora viene proclamata regina della Brughiera, unificando così il regno degli umani e quello delle creature fatate con Filippo al suo fianco, e la voce narrante femminile che ci aveva accompagnati fin dall'inizio si rivela essere la Bella Addormentata stessa, che col senno di poi riconosce che per ottenere quel risultato non ci è voluto né un vero eroe né un vero cattivo, ma qualcuno che è entrambe le cose.
In conclusione, per essere un debutto alla regia è un film strutturato bene: la prima parte della trama mi è parsa un po' debole e la rappresentazione delle tre fatine caricaturale, ma sono rimasta molto colpita dal fatto che il tutto sia come un cerchio che si chiude: nulla è lasciato al caso, gli elementi che ritroveremo poi alla fine ci sono già tutti all'inizio, basta solo un po' di pazienza per accorgersene.
Valutazione complessiva: