Quando le parole sono più forti della morte
Cari amici, oggi si ritorna al
cinema. Oltre al popcorn, vi suggerisco di premunirvi di una scatola
di fazzoletti. Preferibilmente formato famiglia.
E perché, vi chiederete voi, cotante lacrime? Perché il film
in questione è Storia
di una ladra di libri,
del 2013, con Brian Percival al timone della regia. Chiamatemi
sentimentale, oppure (a vostra scelta) date tutta la colpa al mio
ormai ampiamente dimostrato status di topo, o gatta, di biblioteca,
ma è veramente toccante.
Germania, 1938. La nostra ladra
si chiama Liesel Meminger (Sophie Nélisse) e la incontriamo per la
prima volta su un treno che la sta portando, con la madre e il
fratellino, all'altro capo del Paese. Stando al poco che si riuscirà
a ricostruire, la madre è una comunista in fuga dal regime di Hitler
che ha deciso di dare i figli in adozione. Dei due, solo Liesel
arriverà sana e salva nella nuova casa: il piccolo morirà in
viaggio, come si può intuire peraltro dal particolarissimo punto di
vista narrativo del film. Di tanto in tanto, infatti, interviene una
voce narrante tranquilla, superiore, appena un po' ironica, che
rappresenta nientemeno che la Morte.
La causa del decesso non è ben
specificata: da incolpare sono forse le condizioni proibitive del
viaggio unite a una preesistente malattia. La scena, tuttavia,
sacrifica la chiarezza in favore di una grandissima classe: una
sparuta gocciolina di sangue e – espediente, questo, che ho trovato
intelligentissimo – lo strillo di Liesel che si fonde col fischio
del treno.
La carriera di ladra di libri per
la nostra eroina comincia presto: al funerale si appropria di un
volumetto caduto che si scoprirà poi essere un manuale per becchini
e che conserva ancora quando arriva in Via del Paradiso come fosse la
cosa più cara che ha.
La
nuova vita sembra promettere bene e male in parti uguali: da una
parte c'è Rosa Hubermann (Emily Watson) che si presenta come una
vera aguzzina che non esita a chiamare Liesel “sporca” e
“stupida” entro i primi due minuti, e dall'altra Hans (un
grandissimo Geoffrey Rush che nel ruolo di simpaticone e, come
vedremo, di maestro, sguazza come un pesciolino dai tempi de Il
discorso del re),
che invece la convince a uscire dall'auto dov'è rintanata
semplicemente sorridendole e chiamandola, per scherzo, “Vostra
Maestà”. Un piccolo appunto: a causa di ciò ho impiegato
parecchio tempo a capire che “Via del Paradiso” era l'indirizzo
reale e non un'altra sua invenzione per renderlo più invitante. Col
tempo, per fortuna, anche Rosa si addolcirà e farà capire che
brontola per lo più a vuoto, ma non è una cattiva persona.
Ebbene?
Una storia qualunque sulla Seconda Guerra Mondiale e una ragazzina a
cui piace leggere, sai che novità! E invece la novità c'è perché,
come si scopre con un discreto shock poco dopo, quando arriva per la
prima volta a scuola accompagnata dal vicino di casa Rudy Steiner
(con cui nasce immediatamente quel tipo di amicizia a suon di “non
ti sopporto, ma ti voglio bene”, e chissà che non ci sia qualcosa
di più), Liesel non
sa leggere.
Non si sa bene perché non abbia mai imparato, ma è proprio così:
la sua attrazione verso l'oggetto libro è completamente indipendente
dalle parole che ci sono dentro.
Il comportamento dei compagni
alla rivelazione sembra il classico episodio di bullismo (quando il
termine “bullismo” ancora non si usava), ma è più significativo
di quel che sembra: quando Liesel reagisce a pugni agli insulti del
più cattivo di tutti, Franz Deutscher, si guadagna improvvisamente
il rispetto generale. Niente di strano, direte voi. Ebbene, quello
con cui la incitano a fare a botte è lo stesso identico tono con cui
Franz e compari, sfrecciando per strada in bicicletta e sventolando
trionfanti il giornale, annunceranno che la Germania è in guerra.
Adesso è più inquietante, vero?
Dopo la memorabile figuraccia
Liesel è inconsolabile, ma Hans, con pazienza, comincia a insegnarle
a leggere, tra l'altro facendole confessare tra mille imbarazzi il
furto del manuale, più o meno così:
«È tuo?»
[…]
«Non è sempre stato mio».
Segnatevi questo dialogo, perché
tornerà con gli interessi.
Non solo Hans la guida piano
piano dall'inizio alla fine del suo primo libro, ma fa di più:
essendo di mestiere imbianchino, non ha problemi a rivestire i muri
della cantina di un abbecedario gigante con tanto spazio vuoto perché
Liesel vi possa aggiungere parole nuove.
Praticamente
un idillio, eh? Sbagliato. Col suo secondo furto, Liesel salva da un
pubblico rogo di libri (oh, l'atroce sofferenza! Alla futura
bibliotecaria che c'è in me viene la nausea, e non solo per nobili
questioni sulla libertà di stampa, ma proprio alla vista della carta
in fiamme di per sé!) una copia de L'uomo
invisibile
di H.G. Wells, ma è notata dalla moglie del borgomastro. Quando poi
dovrà consegnarle una cesta di bucato pulito e stirato, la scena è
di quelle che ti fanno afferrare i braccioli fino a lasciarvi il
segno per l'ansia: «E così ti piacciono i libri?». Pare la strega
delle fiabe che sta per metterla in gabbia e ingrassarla fino a
mangiarsela. Invece Ilsa è più una fata madrina che una strega, e
ogni volta che Liesel fa le sue consegne la lascia stare per un po'
nella fornitissima biblioteca del figlio Johann, morto nel conflitto
mondiale precedente, perlomeno fino a quando la scopre il marito
(che, sarà bene specificare, aveva fatto precedere il rogo da un
discorso che a quelli dello stesso Hitler aveva poco da invidiare).
In breve tempo, insomma, le
pareti-abbecedario scoppiano di parole. E qui sarà bene fermarsi e
notare un particolare che mi ha dato un certo fastidio. Io capisco
che il film non sia di produzione tedesca, ma per quale arcano motivo
tutte le insegne e i cartelli per strada sono in tedesco e invece
ogni volta che Liesel legge o scrive lo fa in inglese? Non può
essere la sua lingua d'origine, a giudicare dal nome, e dubito che
Hans e Ilsa siano perfettamente bilingui.
La
situazione precipita quando, con uno stacco brusco, si passa dalle
scene paesane a un misterioso vetro spaccato che, a sapere un po' di
storia, fa capire subito dove siamo prima ancora che spunti la
didascalia: è la Notte dei Cristalli. Un ragazzo ebreo, Max
Vandenburg, riesce a scappare dal caos e si presenta trafelato e
denutrito alla porta dei nostri eroi, che – come si intuisce presto
– avevano contratto un debito con la sua famiglia quando il padre
aveva salvato Hans nella Prima Guerra Mondiale. Rosa ha i suoi dubbi,
ma infine accettano di ospitarlo. Anche Max si porta dietro, come la
nostra eroina, un libro che “non era sempre stato suo”, un libro
che parla di Hitler. Solo più avanti si vedrà chiaramente che è
una copia del Mein
Kampf.
Scampato a un controllo della
cantina al cardiopalmo (come farà a non rivelarsi trasalendo per il
rumore mentre l'agente butta giù oggetti e picchia sul soffitto,
proclamandolo infine troppo basso per diventare un rifugio antiaereo,
io proprio non lo so).
Arriva
il Natale, e la cantina è talmente fredda che vi si possono
trasportare intere secchiate di neve per farne un pupazzo e una
battaglia con tutti i crismi. Max, che non ne ha mai celebrato uno,
tuttavia ha un regalo per Liesel: il suo ex Mein
Kampf.
Dico “ex” perché il giovane, non avendo altro da fare, ha
passato le giornate seduto a cancellarne ogni singola pagina con la
vernice. Non si capisce cosa stia combinando finché non glielo
consegna: quello che vediamo dell'operazione è una foto del Führer
che sparisce sotto le pennellate. Più che un regalo pare uno sfogo.
Invece è proprio un dono, il migliore che le potesse fare: un libro
vuoto, dove le uniche parole sono la dedica e poi, nella prima
pagina, alcune lettere ebraiche per lei indecifrabili che vogliono
dire “scrivi”. E basta. Il resto sta a lei.
Nel
gelido scantinato, Max si ammala a tal punto che si teme non si
svegli più, ma Liesel continua imperterrita a leggergli ad alta voce
libri “presi in prestito” da Ilsa entrando dalla finestra della
biblioteca. Ma se un solo furto può anche passare inosservato, tanti
prima o poi saranno scoperti, e così succede anche alla nostra
eroina: per fortuna a sorprenderla è Rudy, che ben presto le estorce
anche l'esistenza di Max. Franz a sua volta li sente discutere: non
arriva in tempo a carpire il gran segreto, ma sa che qualcosa c'è e
per scoprire cos'è ricorre ai pugni. Purtroppo la scena si svolge su
un ponte e, nella colluttazione, il diario mascherato da Mein
Kampf
cade nel fiume. Rudy si espone al serio rischio di assideramento per
salvarlo. Se non è affidabile ora, che altro deve fare per provarlo?
Intanto, la guerra accolta con
tanta gioia dai compagni si fa sentire nei suoi aspetti peggiori: il
padre di Rudy viene arruolato e più avanti il ragazzo stesso, che è
un eccellente corridore, viene scelto per un addestramento speciale e
– per qualche ora, non di più – vagheggia di scappare perché
“vuole crescere prima di morire”. Certo che finire a giocare nei
boschi a chi grida più forte il proprio odio per Hitler non è una
grande idea: sono lontani da tutti e nessuno sente, grazie al cielo,
ma mette tanta ansia che ci si dimentica quanto sia commovente.
C'è un nuovo sviluppo quando
Hans commette un errore fatale: espone la famiglia al sospetto
difendendo un vicino di casa di cui sono appena state scoperte le
origini ebraiche e Max, ormai guarito, deve lasciare la casa. Poco
dopo, anche il nostro capofamiglia viene coscritto, nonostante l'età:
pare che Liesel, pezzo per pezzo, stia perdendo tutti. Ma “perdere”
non significa “dimenticare” e la nostra eroina si mette a sua
volta nei guai, urlando il nome di Max per strada quando vede un uomo
che gli somiglia in una fila di ebrei destinati a un campo chissà
dove.
E qui, signori, cominciano le
dolenti note, perché l'ultima parte del film è una sequela di
scherzi del caso talmente improbabili da far colare a picco la
credibilità: prima la camionetta di Hans è coinvolta in
un'esplosione che lo costringe a tornare a casa zoppo e con le
orecchie malandate ma vivo, poi Via del Paradiso viene bombardata per
errore e Liesel si salva solo perché si era addormentata in cantina
mentre compilava il suo prezioso diario e Hans, chissà perché,
aveva deciso di lasciarla lì al freddo invece di prenderla di peso e
portarla a letto. Non era la stessa cantina dichiarata inefficace
come rifugio da un cosiddetto esperto?
Alla vista dei suoi cari morti,
Liesel sviene tra le macerie e quando si sveglia, peraltro trovandosi
davanti al naso un libro di cui naturalmente si appropria senza
pensarci due volte, scopre che il padre di Rudy è tornato illeso ed
è disposto ad adottarla e prenderla come aiutante nel suo negozio.
Tra l'altro, non per essere macabra, ma qui avrei bisogno dell'aiuto
di un esperto per essere sicura della prossima affermazione: i
cadaveri estratti da quel che resta di Via del Paradiso non hanno,
per il poco che so, l'aspetto di persone sorprese dalle bombe.
Capisco la volontà di evitare di scadere nel grottesco, che è
sempre cosa buona e giusta, ma composti e pulitini come sono sembra
quasi che si siano addormentati. E credetemi, io non sono il genere
di persona che nei film vorrebbe sempre un po' di sangue in più,
tutt'altro.
Due anni dopo, la vediamo alzare
gli occhi dal lavoro al suono della campanella dell'ingresso.
Indovinate un po' chi ha spinto quella porta? Non vi faccio spoiler,
anzi sì: è qualcuno che i più pessimisti supponevano già finito
in un forno crematorio da qualche parte.
In un finale che chiude il
cerchio, il narratore-Morte ci rivela a spizzichi e bocconi che
Liesel vivrà fino a novanta onorevolissimi anni, piena di figli,
nipotini e soprattutto libri, dato che a giudicare dallo stato
dell'appartamento è diventata scrittrice.
Insomma: uno spaccato di vita
senza errori storici macroscopici (ma il periodo non è il mio forte,
dovrebbero essere davvero enormi perché io me ne accorga), una
protagonista adorabile con intorno un cast coi controfiocchi, ma una
narrazione qui e là confusa e forse un po' troppe felici casualità,
come se qualcuno fosse stato indeciso tra una conclusione senza
speranza e una che invece addolcisse un po' la pillola amara della
Seconda Guerra Mondiale.
Valutazione complessiva:
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