Tutti a bordo della macchina del tempo!
Salve, amici! Oggi torniamo a
rivolgere l'attenzione, com'è giusto in un blog che porta questo
nome, a un libro.
Vi avviso fin d'ora che troverete
un po' diversa dal solito questa... recensione? Riflessione? Fatico
perfino io a trovare il termine giusto, perché le circostanze in cui
sono venuta a sapere dell'esistenza del nostro tomo e ho deciso di
leggerlo sono piuttosto eccezionali. Holden Caulfield ha un bel dire
che un buon libro è quello che ti fa venir voglia di telefonare
all'autore (perdonatemi se non sono le parole esatte), ma di norma
aver incontrato faccia a faccia la persona dalla cui penna è uscito
un libro che ti è piaciuto non è una situazione da tutti i giorni,
o sbaglio?
Ebbene, per
stavolta mi è capitato. Non sono di certo abbastanza in confidenza
con lui da assillarlo con le telefonate-fiume che voleva Holden, ma
l'ho conosciuto: Alessandro Barbero, autore (tra gli altri) di Bella
vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, che seguivo
già all'interno di Superquark e alle cui lezioni, finalmente,
ho assistito anche dal vivo. Inondatemi pure di domande nei commenti:
la risposta è sì, è identico a quello della TV, non recita per
nulla, l'entusiasmo per la storia è tutto autentico. E questo, se
permettete, è un gran bel biglietto da visita per un romanzo
storico. Una noticina veloce: la copia che ho letto io ha tutt'altra
faccia, è un'edizione più recente di cui non sono riuscita a
reperire l'immagine.
Già il titolo è di quelli che
riempiono di belle speranze: sicuramente qualche topo, gatto, opossum
o lemure di biblioteca si sarà accorto del richiamo a La vita e
le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Sterne, e se fin
dalla copertina un autore dimostra di saper citare (attenzione:
citare, non copiare. Sul limite fin troppo sottile tra queste due
parole ci vorrebbe un post apposito!), l'impressione che se ne ha è
che sappia il fatto suo.
Apriamo il libro: sarà vera
quest'impressione? Dal modo che ha di sciorinare date fin dalla prima
riga si direbbe proprio che almeno gli aspetti della storia che di
solito gli studenti detestano li conosca come il palmo della sua
mano; eppure non è nemmeno il suo periodo storico d'elezione!
Eh, già, perché sebbene sappia
muoversi un po' in tutte le epoche, basta spulciare un elenco delle
sue pubblicazioni per rendersi conto che a prevalere è il Medioevo,
mentre qui siamo nell'anno di grazia 1806. Non sarà mica che dovremo
temere qualche scivolone in questo terreno ostile? Calma e sangue
freddo, amici. Forse sarò l'ultima che può giudicare, ma non ho
incontrato nulla che mi paresse fuori posto. Certo, per essere
evidenti a una profana dovrebbero essere proprio erroracci
macroscopici, e con quelli il Premio Strega vantato dal nostro libro
non si vince...
E dunque? Un'infinita lezione di
storia in salsa appena un po' romanzata, che fa sbadigliare ogni
dieci righe? Ma nemmeno per sogno! Le parti un po' monotone, come
vedremo, non mancano, ma anche quelle hanno un motivo ben preciso.
Leggere questo libro essendo completamente a digiuno di storia è, se
devo essere sincera, un'impresa impossibile, perché i riferimenti ai
fatti che si studiano a scuola sono tanti e non semplici, ma a parte
qualche momento di lotta all'ultimo sangue con le circostanze di
questa o quella guerra, farsi prendere dall'atmosfera è fin troppo
facile. Pare di essere trasportati nel passato per la ricchezza di
dettagli, alcuni divertenti, altri disgustosi, ma tutti ugualmente
utili a dare al racconto il giusto colore.
La parte più affascinante del
leggere, e probabilmente anche dello scrivere, un romanzo storico, è
avere a che fare con personaggi che agiscono, parlano e pensano in
modo inevitabilmente diverso dal nostro e si scontrano ogni giorno
con situazioni per noi inconcepibili. Voi riuscireste a calarvi nei
panni di un tal Mr. Robert Pyle, inviato straordinario degli Stati
Uniti d'America presso Sua Maestà il re di Prussia nel 1806? Il
nostro autore l'ha fatto, tanto più che il libro si configura come
il diario di Pyle, compilato con certosina precisione ogni santo
giorno dal 13 luglio al 14 ottobre del fatidico anno, anche quando,
visti gli eventi in cui resta coinvolto, non si sa bene come abbia
fatto a non dimenticarsene, a non perdere il prezioso libriccino da
qualche parte o anche solo a trovare una buona superficie solida su
cui appoggiarsi per scrivere.
E a proposito di dimenticare, Mr.
Pyle ha proprio una memoria di ferro, vista la fedeltà con cui
riporta le frasi rivoltegli in una quantità di lingue diverse
(grazie al cielo esiste, almeno nella mia edizione, un simpatico
glossario in fondo che aiuta a dipanare la matassa del tedesco, del
francese, dell'olandese, del latino e compagnia cantante!). Sorge il
dubbio che forse in un autentico diario compilato sul momento non ci
sarebbe spazio per dialoghi tanto particolareggiati e complessi, dato
che lasciarsi sfuggire qualche parola è umano, ma la narrazione
procede sui suoi bravi binari a un ritmo tale che il lettore non se
ne accorge se non con il senno di poi.
Per evitare eccessivi spoiler, vi
dico soltanto che nel corso dei suoi viaggi (al plurale, perché
attraversare l'oceano e poi fermarsi definitivamente in una sola
città europea non gli basta) incontrerà un campione umano dalla
varietà veramente impressionante, dal più alto dei nobili titolati
all'ultima delle... ehm, ragazze di facili costumi. Mi spiace troppo
usare certe parole volgari, Lenchen mi sta simpatica e credo di aver
maledetto Schill all'infinito per come deve averla trattata nel
segreto della sua stanza.
Il povero Pyle viene sbalzato,
con un paragone dolorosamente anacronistico, come una pallina da
flipper da un ricevimento al cospetto del re a una bettola
puzzolente, da un teatro all'ultima moda a un campo di battaglia (se
non fosse che il prologo si svolge a distanza di anni, nel 1848, qui
e là mi sarei rosicchiata le unghie a sangue per l'ansia), in una
tale girandola di ambienti e avvenimenti diversi che se dovessi
stilarne un elenco completo riscriverei il libro intero. Lasciate
dunque che vi anticipi solo qualche chicca, come per esempio la cena
a casa di un tal professor Fichte (che volete che sia? È “solo”
finito sui miei libri di filosofia del liceo, dopotutto!) e l'incontro con il
grande poeta Goethe, che già la quarta di copertina prometteva e che
io sono stata ad aspettare fin quasi alla fine, borbottando tra me:
«Okay, lo trova qui... Ah, no,
allora nel prossimo posto dove andrà... No, nel prossimo ancora...
Alleluia!». Più che seguire passo per passo lo svolgersi della
trama, che è tutto un intreccio inestricabile della più elevata
politica e della più bassa vita quotidiana, mi converrà dunque
riflettere per temi.
Mr.
Pyle e i viaggi.
Mi credete se vi dico che ogni volta che il diario riportava una
fatidica frase simile a “Il giorno tale sono partito per il
talaltro posto” mi venivano le lacrime agli occhi? Le sezioni di
viaggio sono quelle noiose di cui vi avevo avvertito, e non noiose
per carenze stilistiche da parte dell'autore, ma proprio perché
viaggiare nel 1806, oltre che essere scomodo, doveva pure far venire
il latte alle ginocchia. Dove il protagonista calcola fiducioso di
metterci (numero a caso) quattro giorni, state sicuri che capiterà
qualcosa per fargliene impiegare otto! Una volta una malattia, una
volta un pantano terribile che blocca la carrozza, un'altra non ci
sono i cavalli per il cambio, un'altra ancora l'asse delle ruote si
spacca in due di netto... Se non fosse che lungo la strada succede
sempre qualcosa d'importante per la comprensione di quel che segue,
qui e là sarei stata tentata di saltare il tragitto e seguire Pyle
direttamente a destinazione, perché alla fin fine, a parte gli
eventi straordinari che tengono il lettore incollato anche alle
pagine peggiori, ogni racconto di spostamento si riduce a questo:
descrizioni della natura del paesaggio fuori dal finestrino, cronache
poco simpatiche del pessimo cibo ingurgitato in qualche locanda,
irritazione per le infinite lungaggini alle frontiere e un
po' di sano sesso descritto con una quantità di eufemismi e pudori
(vogliamo parlare delle metafore militari secondo cui il preservativo
sarebbe “l'armatura” e i bollori raffreddati vengono paragonati
senza batter ciglio a polveri bagnate?). E questo ci conduce a...
Mr.
Pyle e le donne.
Ecco, questo è forse l'unico aspetto che mi rende il personaggio un
po' antipatico. Non fraintendetemi, Mr. Pyle è un gran bel tipetto,
quasi quasi mi andrebbe di conoscerlo, ma dovrei trovare un modo per
premunirmi, perché se davvero avessi l'occasione di entrare
magicamente tra le pagine e stringergli la mano, il mio più grande
timore sarebbe di trovarmi a stringere qualcos'altro un po' più giù!
Capisco che quando si legge un romanzo storico si debba far voto di
sforzarsi di capire il modo di pensare degli antichi e di non
indignarsi se esprimono idee che oggi ci risultano strane od
offensive, ma sono rimasta colpita in negativo dall'assoluta
naturalezza con cui a Pyle capita di allungare del denaro a qualche
ragazza in un angolo sperduto della Germania aspettandosi in cambio
che si spogli docilmente, e forse ancor più colpita dal modo in cui
le donne stesse (la maggior parte di loro, almeno) non si sentono
minimamente lese nella loro dignità da questo comportamento. Un
conto è una Lenchen, che lo fa per mestiere, un altro è una
qualunque locandiera lungo la strada di cui il nostro uomo non si
preoccupa nemmeno di apprendere il nome e le cui mansioni, almeno
sulla carta, non prevedono di togliersi i vestiti. Eppure basta una
mancia un po' generosa perché (quasi) tutte ci stiano, chi con gioia
e chi con riluttanza. Non mi resta che sospirare, stringere i denti e
ripetermi che allora era così e basta. Non penso che Mr. Pyle sia
dipendente dal sesso o qualcosa di simile, anche se i momenti
inopportuni in cui viene colto dal desiderio sembrano confermare
quella diceria secondo cui gli uomini avrebbero pensieri di quel
genere ogni sette secondi. Fa solo parte di un mondo ormai estraneo.
Sta di fatto che leggendo di quell'unica, benedetta volta in cui una
ragazza mette in chiaro di non avere intenzione di rendergli quel
tipo di servizio, la parte di me che tifava per Pyle si è
rattristata, mentre la mia femminista interiore, al vederlo
rifiutato, gridava: «Ben gli sta!».
Mr.
Pyle e gli stranieri.
A proposito di idee offensive, soffermiamoci un attimo sul rapporto
che il nostro protagonista ha con gli altri popoli. Pyle ha un
bell'arrabbiarsi quando sente qualcuno esprimere convinzioni assurde
sui suoi Stati Uniti, che non erano ancora neanche lontanamente la
potenza che sono oggi e che molta gente non sapeva nemmeno dove
fossero, ma a sua volta non risparmia proprio nessuno: incrocia
esponenti di tantissime nazionalità e per ciascuno ha sempre qualche
parola da spendere, nel suo caro diario, su quella che crede sia la
natura di quel popolo. Sotto i colpi della sua penna cadono come
mosche inglesi, olandesi, tedeschi, francesi, italiani, polacchi,
ebrei e – con un termine che non so quanto possa essere appropriato
– afroamericani. Tutti hanno per lui qualche difetto connaturato,
che riconosce infallibilmente in ognuno, come se l'eccezione fosse
semplicemente impensabile, e il domestico di colore che si è portato
da casa, Will, si prende a sua volta la sua brava dose di frecciate.
Il loro rapporto è ancora sorprendentemente buono: la condizione
giuridica di Will non è quella di schiavo e il peggio che io ricordi
nei loro scambi di battute è uno “stupido negro” rivoltogli
quando viene fuori che i conti non tornano e alle finanze di Pyle
mancano misteriosamente dei soldi, ma certe affermazioni, ripetute in
pubblico ai nostri giorni, basterebbero e avanzerebbero per
guadagnargli parecchi nemici.
Per
non parlare poi degli ebrei! La “disgraziata razza” (parole sue,
non mie) è oggetto delle peggiori considerazioni da parte di Pyle e
di parecchi altri personaggi, e c'è un passo che vale la pena di
citare perché mi ha messo un brivido.
«[...]
I miei compagni di studio sono già occupati a compilare liste di
proscrizione in previsione del giorno in cui conquisteranno il
potere: il discendente, sia pure in settimo grado, di un francese, di
un ebreo o di uno slavo sarà condannato all'esilio.» «Ma queste
son cose che si dicono» risposi spazientito dalla sua ingenuità;
«figuratevi un po' quale governo potrebbe mai considerare sul serio
dei provvedimenti come questi!»
Ora
ditemi voi se, col senno di poi, non ricorda un po' troppo Hitler.
Da
parte di un lettore distratto e dall'accusa troppo facile, dunque, il
nostro professore con questo libro potrebbe prendersi del sessista,
del razzista e fors'anche del neonazista e, non ne dubito, un sacco
di altri pericolosissimi “-ista”, ma questo significherebbe
commettere un grave errore di comprensione. L'immedesimazione è la
chiave di tutto: quando un autore assume la maschera di un
personaggio che la pensa in modo tanto diverso, bisogna stare ben
attenti a tenere i due separati e a ricordare a se stessi a ogni piè
sospinto che se Pyle dice una cosa, è perché la crede solo e
soltanto Pyle, non certo Barbero. Dargli del razzista perché quei
talleri scomparsi spingono il caro Robert a pronunciare parole
politicamente scorrette significherebbe non aver capito nulla.
Insomma,
seicento e passa pagine che vale la pena di affrontare se volete un
libro scritto con vera cognizione di causa, ma che non consiglierei a
chiunque. È onestamente il miglior romanzo storico che io abbia
letto negli ultimi tempi, ma se non siete già lettori forti del
genere posso quasi garantire che non vi piacerà. Se siete pratici,
mettetelo nella lista “da leggere” e non ve ne pentirete, ma se
non ne avete mai preso in mano uno, usate qualcosa di più leggero
come introduzione a questo mondo e poi provatelo più avanti.
Valutazione
complessiva:
lo compro
RispondiEliminaBuona lettura, allora! :-)
EliminaVeramente brava :) Complimenti Martina !!!!
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