Riflessioni post-laurea
Salve a tutti!
Perdonate l’ennesima lunga sparizione, ma durante
quest’ultimo periodo di silenzio sono successe tante cose, la più grossa delle
quali è che mi sono laureata.
Spero dunque che giustificherete un post un filino più
egocentrico del solito. Sento il bisogno di buttar giù qualche riga sul valore
di questo parolone che mi è piovuto addosso dal cielo, “dottoressa”, e
chiaramente dovrò parlare estesamente della mia esperienza per farlo.
Quello che mi chiedo è perché certa gente dia ai titoloni
tanto valore. Non propongo di abolirli, per carità, né intendo sminuire la
fatica di nessuno nell’ottenerli, perché così facendo svilirei anche me stessa,
e questo vedete bene che è illogico (immaginate che io abbia appena sollevato
un sopracciglio à la Spock, se vi
pare). Laurearsi è un parto, in un certo senso: in questi ultimi mesi, quando
chiamavo scherzosamente ma non troppo la tesi “la mia bambina”, non esageravo
poi tanto. Dunque non ritengo che richieda poco sforzo, o che non si debba
riconoscere il valore della laurea. Lungi da me.
Ma il peso dato alla parola “dottore”, francamente, un po’
mi schiaccia, e non perché sia troppo piena di significato, ma perché è troppo
vuota. Sembra un paradosso, ma vedrete che non lo è. Cerco di spiegarmi meglio
con un esempio pratico, il mio.
Ho conseguito il titolo il 23 settembre 2015. Ebbene? Quando
scatta la magia? Il 23 sono miracolosamente diventata una persona diversa
rispetto al 22? Oppure per far funzionare l’incantesimo ci vuole una sola ora,
cosicché non ero nessuno alle tre e, abracadabra, ero diventata qualcuno alle
quattro? O cinque minuti? Plebea alle 15:55 e improvvisamente nobilitata alle
16:00? O una manciata di secondi, quelli necessari alla presidente di
commissione per finire la frase? Neanche fosse “bibidi bobidi bù”. Francamente,
non faccio nomi, ma la professoressa nel ruolo della Fata Smemorina non ce la
vedo proprio.
Visto? Davvero un pessimo effetto, non trovate? |
No, scusate tanto, ma per me non funziona così. A renderti
una persona diversa e – si spera – migliore non è la discussione della tesi,
che, parliamoci chiaro, è stata uno dei momenti più adrenalinici della mia
vita, né tantomeno qualche frasetta cerimoniale seguita da un giro di strette
di mano. È l’esperienza intera, con i suoi alti e bassi, gli sforzi
intellettuali e, diciamocelo, anche fisici che implica (sondaggio tra studenti
più o meno in crisi: voi dopo un esame avete fame? Io non sono brava a valutare
il consumo di calorie che comporta, ma sono convintissima che qualcosina si
bruci!). Il titolo altro non è che una formalizzazione di questo percorso, un
qualcosa che serve a dire al mondo che l’hai fatto, che sei sopravvissuto anche
a questo, ma anche se non ci fosse, io per parte mia non rischierei certo di
scordarmelo. Mi ha lasciato dei segni, metaforici ma neanche tanto, che se
anche fossi mai stata interessata a farmi un tatuaggio sarebbero già
sufficienti a levarmi la voglia. Anche se nessuno mi chiamasse mai più
“dottoressa”, quel che ho passato lo saprei io. So quanto ho sudato per
arrivare fin qui, ricordo ogni crisi isterica pre-esame, l’incubo in cui il
professore sembrava parlare in ostrogoto antico del Nordest (?) per quanto ne
capivo, quello in cui il mio inconscio o chi per esso assimilava gli esami agli
Hunger Games, quello in cui ricevevo un maldestro tentativo d’incoraggiamento a
suon di onore guerriero da parte di Worf (Star
Trek: The Next Generation e Deep
Space Nine, per chi non è abbastanza nerd da saperlo) e anche quello in cui
un fantomatico scritto d’inglese veniva valutato in tandem dalla mia maestra
delle elementari e dal presidente Obama. Credetemi, so quanto vale una laurea.
Ma lo saprei anche senza titolo.
Perché insistere tanto? È una questione di rispetto, direte
voi. Ma il rispetto non sta in una sola parola, sta in tutto l’atteggiamento
che viene prima, durante e dopo. Se non mi chiamano “dottoressa” ogni due per
tre, io non la percepisco affatto come mancanza di rispetto. Per esempio, mi
sento più rispettata da una persona che, senza usare questa benedetta parola,
mi coinvolga in una conversazione interessante da pari a pari e mostri di
prendere sul serio il mio punto di vista che da una che usi mille titoli e
salamelecchi e poi mi annoi a morte blaterando di argomenti in cui non posso
inserire più che qualche “Certo”, “Infatti” e “Mm-hm” di circostanza, ignorando
il mio disinteresse e andando avanti come un bulldozer.
Obietterete che se non uso il titolo che uno si è guadagnato
col sudore della propria fronte quella persona potrebbe offendersi. Nulla di
più distante dalle mie intenzioni. Il titolo, se so che una persona ce l’ha, lo
uso, perché la convenzione sociale dice così e va seguita, che mi piaccia o no.
Ma siamo proprio sicuri sicuri che il valore di un uomo o di una donna stia in
quelle poche letterine prima del nome? Non ditemi che non vi è mai capitato di
conoscere qualcuno che titolato non è, ma che per voi vale dieci dottori,
cinque chiarissimi professori e tre eccellenze, perché ha fatto esperienze di
vita che certi eruditi si sognano, o perché è una persona di buon cuore che vi
ha aiutato quando altri, con le loro fior di pergamene appese alla parete dello
studio, vi hanno voltato le spalle.
E poi, onestamente, questo titolo quanto vale davvero? Sia
chiaro, ancora una volta, che non voglio sminuire proprio nessuno (ricordate
quello che ho detto prima: se sminuisco i dottori in generale, sminuisco pure
la sottoscritta), ma guardiamo i fatti: la società cambia, e il valore dei
titoli con essa.
Mi hanno regalato un set di biglietti da visita con il mio nome
preceduto da questa sigla benedetta. Grazie mille. Non ho (ancora) l’abitudine
né l’occasione di distribuirli a destra e a manca, ma grazie mille. Non sputo
in faccia a un regalo. Mi piace pensare di essere stata educata meglio di così.
Ma proprio perché, per ora, l’utilità pratica di questo dono così elegante è
pochina, è dolorosamente chiaro che si tratti di un gesto compiuto per la
soddisfazione di vederlo scritto da qualche parte. Dato che una targa sulla
porta sarebbe un po’ troppo, si è deciso di ripiegare sui biglietti, diciamo.
Ma io non ho passato tre anni della mia vita a studiare per una targa o per un
set di biglietti o per non so quale altra gloriosa scritta. L’ho fatto per me
stessa, per migliorarmi, per imparare, per fare esperienze, e tutto questo
sarebbe successo ugualmente anche se non fosse stata versata una sola goccia
d’inchiostro per sottolinearlo.
Eppure c’è gente, anche a me molto vicina, che a vederlo
scritto e a sentirlo dire tiene più di me. Una figlia, una nipote dottoressa
suona bene. Per la gran carità, suona bene pure a me, ma non tanto da pensare
che debba precedere il mio nome ovunque io vada. Ora che frequento la
magistrale, dovrei sentirmi svilita dai non rari professori che danno del tu
agli studenti e inalberarmi a nome mio e dei miei colleghi perché non ci
chiamano tutti dottori e dottoresse? Semmai mi fa ancora un po’ strano il
contrario: ho impiegato un 90% buono della mia esperienza con la triennale solo
a cominciare ad abituarmi al “lei”! Dovrei arrivare all’estremo francamente
ridicolo di pretendere il titolone sempre e comunque da tutti, anche da chi
fino a due mesi fa non si faceva problemi a chiamarmi per nome? Ma fatemi il
favore! Attaccarsi tanto al titolo è, diciamolo gentilmente, una pratica un po’
vintage. E lo dico solo perché
scrivere la parola “anacronistico” mi fa paura, probabilmente mi attirerebbe un
po’ di ire funeste, quindi evitiamo.
La parola “dottore” è inflazionata. Non lo dico né con gioia
né con malinconia. È un semplice dato di fatto: oggi ci sono, numeri alla mano,
più dottori che in passato. Sì, mi sono laureata, e questo fa di me,
legalmente, una dottoressa. Questo fa un effetto molto diverso su mia nonna che
su di me, tanto per fare un esempio. I miei nonni, benedetti loro, sono della
generazione che chiama “scuole alte” le superiori, figurarsi l’università. Sono
ancora intrisi di un’idea di società diversa, cristallizzata come un insetto in
un pezzo d’ambra. Percepiscono una nipote dottoressa come un avanzamento
sociale, sono convinti che ci sia qualcosa di speciale in quelle dieci
letterine, non si rendono conto di quanto stia diventando comune.
Non ne faccio loro una colpa, ma le cose ormai stanno
diversamente da come le vedono. Per me, l’idea di andare all’università era
praticamente scontata. So che dovrei essere molto più grata per il mio diritto
allo studio di quanto queste frasi mi facciano sembrare, e lo sono, fidatevi,
ma devo di necessità essere un po’ brutale. Per valere qualcosa sul mercato del
lavoro, non avevo alternative.
Osserviamo da vicino un normale percorso
d’istruzione di oggi. Userò il mio come esempio perché lo conosco meglio, e mi
rendo conto che ce ne siano (per fortuna!) di diversi, ma ritengo che sia
adatto a spiegare bene quello che intendo.
Partiamo da lontano: zainetto in spalla, primo giorno di
scuola elementare. Mi aspettano cinque anni, e di scelta non ce n’è. Chiamasi
scuola dell’obbligo, e questo nome esiste per un motivo ben preciso.
Poi vengono le medie: altri tre anni fissi, siamo ancora in
quella lunga fase in cui la scuola è sì un diritto, ma è anche, per legge, un
dovere.
Successivamente migro verso il magico mondo delle superiori,
nel mio caso il liceo classico. E qui succede la prima cosa strana: l’obbligo
dura fino a sedici anni. Sedici. Ohibò e poffarbacco. Ciò vuol dire che una
parte è obbligatoria e l’altra no! Volendo, potrei mollare. Certo che non
voglio (be’, a parte in quei momenti in cui la versione di greco di turno mi fa
strappare i capelli), però, accidenti, potrei. Ma parliamo con franchezza: al giorno
d’oggi, chi lascia la scuola a sedici anni lo fa per motivi gravi. Non ho
intenzione di giudicare, né bene né male, chi decide di farlo, ma a meno che la
vita non gli metta tra le ruote delle travi portanti, più che dei bastoni, per
lo più lo studente medio della mia generazione a sedici anni non smette. E
allora andiamo avanti e acceleriamo la videocassetta fino alla maturità.
Adrenalina in corpo a mille, studio matto e disperatissimo, tema su Montale,
versione di Aristotele, quizzone, il temutissimo orale. E ora?
E ora, be’, suvvia, l’università è uno sbocco naturale per
il classico, non vorrai mica smettere adesso! No, certo che no. Non voglio dire
che l’università non fosse una prospettiva attraente. Non vedevo l’ora di
cambiar musica, ad essere proprio sincera, e con questo non intendo accusare
nessuno. Dopo cinque anni, è fisiologico essere stanchi e aver bisogno di un
nuovo inizio. Dico solo che non c’è mai stata una vera scelta, se non quella
della facoltà e della città dove frequentarla. L’obbligo, questo mostro con le
catene ai polsi e la palla al piede, è finito già da un po’, formalmente, ma
informalmente è ancora lì, vivo e vegeto. Seconda stranezza.
E allora via, nuova casa, nuovi amici, nuove abitudini,
nuovo tutto. Si sentiva proprio la necessità di una boccata d’aria fresca, e
alla faccia della boccata. Sono stati, giustamente, i tre anni più intensi
della mia vita, ed è altrettanto giusto che si siano conclusi con un
riconoscimento in pompa magna.
Ma una laurea conseguita nel 2015, socialmente, ha ancora lo
stesso valore di una del 1965 o di ancor prima? Il “pezzo di carta” è diventato
sempre più necessario col passare degli anni, è diventato un requisito anche
per svolgere lavori che prima non lo richiedevano, e qui torniamo alla vecchia
questione del valore di una persona.
Prendete gli infermieri, per esempio. Oggi esiste la facoltà
di Scienze Infermieristiche, e grazie al cielo esiste! Tutti vogliamo che
l’infermiere che si occupa di noi quando stiamo male sia il meglio del meglio
che l’ospedale ha da offrire. Ma non è sempre stato così. Un tempo, fino alla
generazione di mia madre e anche oltre, era sufficiente iscriversi a una
qualunque scuola superiore, generalmente di stampo professionale, e
frequentarne due-tre anni per poi passare alla scuola per infermieri, una
scuola di ordine molto pratico che prevedeva una lunghissima e men che
piacevole gavetta in ospedale. Questo significa che attualmente nei nostri ospedali
lavorano tranquillamente infermieri provenienti da entrambi i percorsi: i
giovani usciti freschi freschi da Scienze Infermieristiche da una parte, e dall’altra
i più “veterani” che hanno ottenuto il posto quando la facoltà non era nemmeno
ancora stata fondata. E voi, dove con “voi” intendo la parte dei miei lettori
con le conoscenze mediche dell’italiano medio, quando andate a fare il prelievo
periodico del sangue riuscite a distinguere i laureati come se avessero scritto
“dottore” in fronte, o li trovate entrambi ugualmente bravi (o, ahimè, un po’
meno bravi) a svolgere simili compiti di routine?
Con ciò non intendo dire né che la facoltà non avrebbe
ragion d’essere, né che Scienze Infermieristiche faccia parte di quell’elusivo
gruppo di indirizzi universitari perfidamente soprannominato “Scienze delle
Merendine”. Per la carità! Sono laureata in Lettere, le materie umanistiche
sono le prime a cadere come mosche sotto i colpi di tali appellativi non troppo
lusinghieri, non mi permetterei mai di sparare giudizi simili sugli altri. Ma
se avere il titolo fosse indispensabile come l’aria che respiriamo, non credete
che butterebbero fuori a calci tutti gli infermieri un po’ più attempati perché
non più adatti ai requisiti più selettivi della medicina moderna?
E delle maestre che mi dite? Oggi diventare insegnante, a
qualunque livello, è una gran complicazione. Lo so più per sentito dire che per
esperienza diretta, perché per quanto si ripeta che l’insegnamento è la
prosecuzione naturale degli studi di Lettere, non è questo che intendo fare,
quindi posso riferire poco o nulla, basandomi sulle esperienze dei colleghi che
inveiscono contro i crediti necessari, il TFA e non so che altro.
E per le maestre elementari, che hanno il delicatissimo
compito di formare i bambini, esiste quest’altra relativa novità chiamata
Scienze delle Formazione. Ma anche quella, rispetto ad altre, è una facoltà
assai giovane. Cosa succedeva prima? Leggete e trasecolate: le maestre
elementari dei “bei” tempi andati, di cui ho già avuto modo di parlare, non
erano nemmeno laureate! Quale immenso orrore! Dopo le medie facevano le
magistrali, che duravano quattro anni. Avete letto bene, quattro. Di fatto, in
termini di tempo, studiavano meno di un ragioniere o di tante altre figure
professionali a cui si richiedesse di completare almeno una scuola superiore da
cinque, eppure erano rispettatissime, alla maestra si aveva paura perfino di
dare torto.
Finita la pericolosa digressione in questo campo che conosco
così poco, tiriamo le somme: a mio modestissimo parere, il concetto di “scuola
dell’obbligo” sta invecchiando, e invecchiando cambia, non significa più la
stessa cosa. C’è l’obbligo di legge, e poi ce n’è un altro tipo, più sottile,
che forse assume forme e durate diverse per ciascuno di noi. Il primo si ferma
a sedici anni, il secondo… be’, non lo so, ma ho come l’impressione che stia
crescendo a vista d’occhio. Per me si è esteso come minimo alla triennale, e
francamente sento che resiste ancora adesso. Una laurea magistrale sta meglio
sul curriculum, e pertanto va ottenuta.
Non dico che questo sia una brutta cosa. Tutt’altro. So di
essere fortunata, privilegiata, a vivere in un Paese in cui il diritto allo
studio ha raggiunto un punto tale da farmi prendere l’università come un dato
di fatto. Eppure… bella soddisfazione, essere chiamata dottoressa dopo aver
fatto soltanto una lunga, lunghissima scuola dell’obbligo. Che gusto c’è nei
titoli, a questo punto? Inventiamone uno anche per i bimbi che finiscono la
quinta. Ogni ciclo dovrebbe averne uno, per quello che valgono.
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