La lingua è viva, anzi vivissima!
Salve, gente!
Avete sentito l’ultima? Potrebbe esserci una nuova parola in
arrivo di cui il nostro panda avrà sicuramente voglia di occuparsi.
Se avete seguito un po’ il tam-tam che si è creato sui
social network, non avrete di certo bisogno di questo breve riassunto della
faccenda: un bambino di otto anni, nello svolgere un esercizio sugli aggettivi,
ne ha prodotto uno che sul dizionario non esiste, ma che – ohibò! – ha senso, e
la maestra non solo ha scritto all’Accademia della Crusca, ma ha pure ottenuto
una celere risposta.
E che risposta! Non solo per il tono, che
per fortuna è calibrato sul livello del piccolino e non su quello di un
linguista laureato con tutti gli onori, ma proprio per il contenuto. Scommetto
che se dico “Accademia della Crusca” molti di voi penseranno a una manica di
bacchettoni antiquati con la matita rossa e blu da maestrini in resta, e invece
a quanto pare non è così. Ci sono, come vedremo, legioni di commentatori che
pensano che l’istituzione sia caduta in basso con questa recente mossa, ma
rimane il fatto che chi ha scritto a Matteo non dice nemmeno una volta che
questa benedetta parola “petaloso” sia inaccettabile. E se ci pensiamo bene, il
ragionamento non fa una grinza: di sicuro verranno in mente anche a voi
infiniti altri esempi, oltre a quelli in foto, di parole costruite esattamente
in questo modo.
E proprio qui, forse forse, sta l’inghippo. Intendiamoci:
tanto di cappello alla maestra che ha deciso di non umiliare l’alunno per il
suo errore e premiarne invece la creatività di fronte alla consegna, o le
capacità di problem solving, se
vogliamo farci belli (o brutti?) con uno di quei termini inglesi che fanno
tanto moderno e ai signori accademici fanno venire la pelle d’oca. Sì, l’ho
usato apposta. No, di solito non parlo né scrivo così. Ma l’impresa di Matteo,
se vogliamo essere brutalmente sinceri, non è straordinaria come il popolo dei
social vuole farla sembrare. Inventare parole che non esistono a partire da
meccanismi molto produttivi, come un nuovo aggettivo in “-oso” oggi o un nuovo
verbo in “-are” domani, è una cosa che credo abbiamo fatto non dico tutti, ma
tanti. Creare un termine dal nulla laddove la parola o frase giusta non viene
in mente, per scarsa padronanza del lessico o non so quale altro motivo, o
regolarizzare parole ostiche dal comportamento imprevedibile per chi non abbia
ancora fatto molti studi formali di grammatica, sono fatti naturalissimi che
fanno parte dell’apprendimento di qualunque lingua, italiano compreso. Chissà
quante simili stranezze avrò detto io stessa da piccola! Se me le ricordassi,
sarei ben felice di farne una lista: chissà che alla Crusca non ne possa
piacere qualcuna. E quante, confesso, ne dico ancora! Queste, però, non voglio
elencarle, perché non vi servirebbero a niente, a meno che non vi troviate a
dover descrivere un certo gattone un po’ scontroso con una macchia sul nasino.
A proposito, posso dire che Leo è “macchioso”? Posso? È una parola tanto
carina…
Diamo ora un’occhiata ai due estremi opposti che si sono
generati, com’era ovvio, nella fiumana di reazioni su Facebook:
(Lasciamo perdere i miei pietosi tentativi di censurare
l’ancora visibilissimo turpiloquio e andiamo avanti, OK? Grazie, troppo buoni.)
E dunque: “petaloso” sì o “petaloso” no? Francamente, è
presto per dirlo, e anche la campagna su Internet per aiutare il piccolo Matteo
a diffondere la sua parola non so se basterà per farla inserire nella prossima
edizione di qualche vocabolario autorevole. Ci avete provato, gente, e
probabilmente una gran bella spinta verso l’approvazione l’avete anche data, ma
non penso che sia ancora sufficiente. O forse sì, chi può dirlo? Non è compito
mio né di tanti studiosi più validi di me avere la sfera di cristallo.
Io questa parola non riesco a farmela piacere tanto, ma da
studentessa che con queste cose ha a che fare ogni giorno mi rendo conto che si
tratta, né più né meno, di un effetto simile a quello che può fare la musica
della nostra generazione ai nonni: “Non è musica, è rumore!”. Se fossi abituata
a sentirla, mi apparirebbe perfetta.
C’è anche chi dice che “non se ne sentiva il bisogno”, che è
un modo brutto per dire ciò che fino a ieri si poteva esprimere con qualche
paroletta in più, ma più elegantemente, per esempio “con tanti petali”, “ricco
di petali”. E qui casca l’asino (no, non sto dando dell’asino a nessuno in
particolare): tu che commenti puoi non sentirne il bisogno, ma ne aveva bisogno
Matteo in quel momento.
Ecco infatti l’esercizio originale che ha provocato tutto
questo. La maestra chiedeva due aggettivi per ogni nome: singole parole che
rientrano in quella categoria grammaticale, non locuzioni formate da più di
una. Matteo, poveretto, avrà avuto voglia di esprimere il concetto “con tanti
petali” per descrivere il fiore che immaginava, ma si sarà reso conto, presumo,
che scrivere “con tanti petali” avrebbe violato la regola data dalla consegna,
e così si è arrangiato. Sì, se ne sentiva il bisogno. O almeno, una persona
l’ha sentito, e la necessità aguzza l’ingegno, per dire la banalità del giorno.
È una parola valida, non si discute. Qualunque manuale lo
confermerebbe. Se poi abbia anche il giusto potenziale per diventare parte
integrante della nostra lingua, non saprei dire. Ma era proprio necessario
coinvolgere l’Accademia e farne un caso nazionale? Sinceramente, trovo il
comportamento di questa maestra un po’ estremo. Encomiabile, ma estremo. È una
cosa meravigliosa che abbia deciso di non mettere Matteo in imbarazzo per il
modo poco ortodosso in cui se l’è cavata, proteggendo la sua delicatissima
autostima di bambino, ma quel che ha ottenuto è stato soltanto di metterlo
sotto i riflettori, facendolo finire su Internet e in TV, e questo, per la
soluzione di fatto ancora errata, per quanto simpatica, tenera e divertente, di
un esercizio d’italiano, è davvero troppo.
Con questo non intendo dire che non sappia fare l’insegnante
e che dovrebbero toglierle la cattedra: se notate, l’ha segnato comunque come
errore, quindi non era sua intenzione premiare una risposta sbagliata. In
effetti, se guardo il suo metodo, sento nascere in me qualcosa che non saprei
definire altrimenti che invidia. C’è una certa poesia nell’espressione che ha
usato, “errore bello”. Magari avessi avuto io delle maestre “poetesse” così! Se
ripenso alla mia esperienza delle elementari, mi viene in mente solo un clima
in cui una cosa come “errore bello” non era soltanto un ossimoro, ma proprio un
adynaton, parolone greco che vuol
dire “impossibile”, una cosa che non sta né in cielo né in terra. Gli errori
belli nella mia classe non esistevano, una parola inventata sarebbe stata un
errore e basta, e non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di scrivere “errore
brutto”, perché erano brutti tutti, sempre. Altro che Crusca! Magari sono
ricordi distorti dal tempo, ma io credo sinceramente che nessuna delle mie
insegnanti avrebbe fatto una cosa simile.
Né, ripeto, penso che scrivere all’Accademia sia stata la
soluzione corretta: se è un’insegnante d’italiano, voglio sperare che abbia le
competenze per spiegare lei stessa, vocabolario alla mano, esattamente gli
stessi concetti, in fondo semplici, espressi nella lettera della Crusca.
Comprendo benissimo che il tempo per finire i programmi ministeriali sia sempre
poco, ma sarebbe stato forse meglio fermarsi un momento e prendersi quanto
necessario (dieci minuti? Mezz’ora?) per dire: “Cari bambini, il vostro
compagno Matteo ha scritto un aggettivo che sul dizionario non c’è, ma sapevate
che un giorno, forse, potrebbe esserci? Che ne dite di scoprire insieme come
nasce una parola nuova?”. E via con un’appassionante, imprevista lezioncina
alternativa sui neologismi, che magari avrebbe sottratto un po’ di prezioso spazio
allo studio degli aggettivi, ma che la classe non avrebbe mai dimenticato.
Niente Crusca, niente hashtag, niente telecamere, ma solo un bellissimo
ricordo.
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